GORAKH BANI VERSI 61- 81
61. Ciò che era incompleto diventa compiuto
E ciò che era bloccato infine fluisce
Ma più affilata della lama di un rasoio è la strada
Di cui ha parlato il guru.
62. Se si trovasse nel corpo, potresti cercare nella sua posizione
Se fosse nella foresta, tutti gli animali selvatici sarebbero dei siddha.
Se fosse nel latte, si estrarrebbe nel ghee.
[Ma] Solo l’azione è l’essenza della realizzazione.
63. Contemplando con la mente, senza rivelare i segreti,
Dirai parole di nettare.
Se qualcuno di fronte a te è il fuoco,
O avadhut, tu diventa acqua.
64. Restando nell’unmani, senza rivelare i segreti,
Bevi il nettare.
“Lascia Lanka e vai a Palanka” [frase idiomatica, per “fai di meglio”,ndt]
Ascolta il mantra dalla bocca del guru.
65. Una città è benedetta da acque, radici e alberi.
Un’assemblea è benedetta da anziani sapienti.
Un re è benedetto da un esercito fedele,
E un siddha è benedetto dalla parola pura e saggia.
66. Pochissimi conoscono la non dualità,
Pochissimi sanno come superare la dualità.
Pochissimi conoscono la storia segreta,
Pochissimi conoscono la parola pura e saggia.
67. Viaggia verso il Nord, mangia il frutto del vuoto,
Indossa gli abiti di fuoco dell’ardore.
Quindi bevi alla fonte del nettare
La mente si placherà.
68. Un indù adora nel tempio,
Un musulmano adora nella moschea.
Uno Yogi adora nella Realtà Suprema
Dove non c’è né tempio né moschea.
69. [Mancante]
70. Se [il supremo] fosse nel corpo, allora nessuno morirebbe,
Se fosse nel mondo, tutto lo vedrebbero, come si vedono le cose.
Ma esso è sempre al di là del corpo e del mondo
Dice Gorakh, discepolo di Matsyendra.
71. L’avadhut seduto è come una verga di ferro,
L’avadhut in movimento è come una sferzata di vento.
L’avadhut addormentato è un cadavere che respira,
L’avadhut parlante è un uccello in gabbia.
72. Gorakh dice: “Oh avadhut, ascolta:
Così devi stare nel mondo:
Guarda con i tuoi occhi, ascolta con le tue orecchie,
Ma non dire nulla con la bocca.”
73. Il Nath dice, prenditi cura della tua anima,
Non essere testardo, non impegnarti in discussioni.
Questo mondo è un rovo di spine.
Fai attenzione, osserva i tuoi passi!
74. Gorakh dice: “Ehi, avadhut,
Guardati dal Signore della Morte. Chi è colpito
Sulla testa dal suo bastone
muore prima del suo tempo”.
75. Distogli la visione dagli occhi,
Evita di ascoltare con le orecchie.
Ignora l’aria sotto il naso.
Quindi, ciò che rimane è il Nirvana.
76. Ehi avadhut, si dice che la mente sia la palla,
E il ricordo (di sé) il bastone del gioco del polo
Con il suono incausato ha inizio la partita.
Il vasto cielo è il nostro campo da gioco.
77. Quando il Siddha ha purificato i cinque elementi,
Senza colore, incontra il senza forma.
Cattura l’elefante che si agita nella mente, oh avadhut,
E troverai l’eterno tesoro.
78. Sollevato tra l’alto e il basso,
Seduto nel mezzo del vuoto.
Lì incontrerai (il dio dell’)l’ebbrezza.
Gorakhnath dice: “Così ho raggiunto l’essenza”.
79. Il vero asceta è colui che controlla se stesso,
Mette fine al movimento della mente,
Uccide il potere dei cinque organi di senso.
Un tale asceta è uguale alla Verità.
80. Io l’ho trovato, ho trovato questo bene.
Con il Sabad ho raggiunto la stabilità.
L’ho visto incarnato nella forma.
Così ho raggiunto la vera conoscenza.
81. Tra il loto inferiore e il loto superiore
È il Pran Purus (l’uomo pneumatico)
I dodici hamsa invertiranno il loro movimento,
E solo allora la luce splenderà.
COMMENTO
§§§
Sul filo del rasoio
La Parola del Saggio, segno qualificante della sua conoscenza, il Sabad, è come il Nettare che si diffonde nel corpo yogico conferendo giovinezza, salute e immortalità. La si può “bere” direttamente dalla Fonte, che è un luogo accessibile solo allo Yogi, è la sua vetta interiore, solitaria. Così la Parola può essere comunicata infine sapientemente, per rigenerare altri della stessa immortalità e perfetta guarigione.
Non è la rielaborazione degli studi accademici, o l’opera divulgativa degli studiosi, degli “esoteristi”, delle figure anche stimate che ne fanno un argomento mondano, per quanto elevato. Anzi, tutto questo parlare è pericoloso come un “rovo di spine” in cui si devono muovere i propri passi con attenzione, evitando di impigliarsi nelle discussioni. Se uno yogi entra in quella rete di pseudo conoscenze e dibattiti, la sua figura sarà sminuita e la sua potenza ridotta, e infine si ritroverà a parlare come un pappagallo addomesticato, chiuso in gabbia, prigioniero e al limite del ridicolo. Altresì le sue stesse parole saranno intese per una delle varie opinioni del mondo e resteranno infruttuose.
La veglia e il sonno non riescono a disturbare la potenza yogica, che in essi può restare stabile come una verga e immobile come un cadavere, solo la parola può diminuire la dignità che uno yogi ha faticosamente conquistato. La parola avventata rischia di rivelarsi il colpo di grazia, il bastone che Yama usa per uccidere l’incauto malcapitato, prima del tempo che gli era assegnato. E’ il colpo sinistro del destino, la caduta a cui non c’è rimedio.
Alcune istruzioni dello yoga intimano al praticante di mantenere segreta la sua pratica, perché, se rivelata, perderebbe tutto il suo potere. Così è detto del Maestro che volesse avere molti studenti, che per occuparsi perciò del loro benessere, sarebbe infine una persona qualsiasi, affaccendata ad accumulare prestigio e alle prese con le questioni del mondo. Ognuna di queste esperienze millenarie e ammonizioni è un esempio di ciò che è detto il Silenzio iniziatico, il riserbo delle anime nobili, la dignità dell’iniziato, ed esotericamente rappresenta una forma del controllo del Seme. Il vero seme è la parola del Guru, seminata nel discepolo, che non va espressa prima che sia giunta a maturazione, purificata e sublimata in Sè.
Rispetto allo Yoga, in qualsiasi accezione lo si intenda, la dinamica è tra il trattenere (il respiro, il seme, la parola, il segreto) e il rilasciare (il respiro, l’insegnamento, la benedizione, il nettare, la potenza…). Il respiro trasporta il prana, il respiro illustra ogni dinamica, non è mero esercizio, ma struttura. Il seme da trattenere può essere la parola, può essere una pratica che si è ricevuto il mandato di mantenere segreta, può essere la consapevolezza che cercare di esprimere l’inesprimibile sarebbe ingenuo e produrrebbe un’espressione inadeguata. Ogni sadhaka deve sapere dove, nel suo caso, deve stabilire la “diga” o il “sigillo”, il bandha, il punto dove il seme non può discendere al di sotto. Uno studente alle prime armi deve tacere su tutto, un istruttore può comunicare la materia e gli esercizi che gli competono, con il dovuto discernimento e senza strafare. Poi c’è anche un luogo ulteriore, da cui può discendere la potenza, controllata, ma è sottile come la punta di uno spillo. La secolarizzazione dello yoga ci ha dato l’illusione che sia uguale a tutto il resto, una conoscenza razionale e a disposizione di tutti. Ma questa materia è delicata e deve essere lavorata con il procedimento che le è proprio. Allora è a disposizione di chiunque desideri fare lo stesso percorso.
61. Ciò che era incompleto diventa compiuto
E ciò che era bloccato infine fluisce
Ma più affilata della lama di un rasoio è la strada
Di cui ha parlato il guru.
Questo cammino si svolge su una distinzione sottile, ci avverte Gorakh, è come camminare sul filo del rasoio: l’apparente semplicità delle istruzioni non deve trarre in inganno. Non è sufficiente essere un erudito, ma non è di grande giovamento nemmeno essere un eremita. La salita al “monte analogo” è esperienza di un luogo senza luogo, dove abitano le immagini causali del mondo, dove si agita lo stormire delle sue voci senza corpo, dei corpi senza arti, delle esperienze senza forma, che lo yogi deve unificare in un solo suono, perché diventi la Parola di saggezza. Quindi lo Yogi pratica la meditazione, l’osservazione costante del mondo “invisibile” che abita il cielo e il cuore segreto dei viventi, vive in questa sospensione, situata tra l’alto e il basso, nel centro, dove l’ebrezza divina lo istruisce nella conoscenza dell’alto e del basso e dei loro legami effettivi, nel contempo facendosi egli stesso sottile, pneumatico, fatto di spirito.
Ciò che di sicuro non si può dire è la non-dualità. Cercare di definire quella realtà con parole erudite, dimostrazioni logiche o paradossali, sarà irrimediabilmente il verso un pappagallo in gabbia che recita la parodia della parola illuminata.
Superare la dualità non è un esercizio dialettico, che può convincere le menti semplici e affascinare gli ambiziosi, non è abolire parodisticamente i pronomi personali, né ripetere a memoria le parole dei filosofi o dei teologi, o peggio ancorarsi a uno schema e una definizione, e tanto meno fare mostra di insensibilità verso la fatica e la sofferenza dei viventi. Non esiste illuminazione senza compassione e veridicità. Piuttosto sono pochissimi, dice Gorakh, coloro che hanno il dono di una parola saggia, cioè risanatrice. Il segno della non dualità è impercettibile e autentico, è la possibilità di produrre con la parola la visione non duale, che si traduce in insight chiaro e illuminante, salvifico, e la capacità di entrare al cuore dove c’erano frammentazione e conflitto, per riconoscere, risolvere e integrare. Come acqua che spegne l’agitarsi del fuoco della mente.
Questa acqua deve sgorgare senza ostruzioni, ma prima era ostruita. Le acque, all’inizio, erano ostruite dai demoni, questo è un elemento tradizionale delle narrazioni sull’origine del mondo. Colui che riesce a far sgorgare le acque è Indra, il Primo, colui che merita di governare sugli dei e sul mondo. Il Bene perciò è ostruito, e la parola, che sempre riflette la luce della coscienza, è simbolicamente l’acqua, il veicolo molecolare della luce del sole, che per lei si può diffondere ovunque e illuminare le cose. Solo l’acqua del Pozzo sacro possiede la virtù risanatrice, e quel pozzo deve essere “liberato”, scavato nella pietra. La Parola, il Logos, ci abita, ma è ostruita, sappiamo che vorremmo o potremmo infine liberarla, sentiamo che il Bene è la nostra vera voce, perciò occorre far fluire la sua e nostra libertà e pienezza. “Liberazione” perciò è la parola chiave che arriva da questo passaggio; Se Gaudapada giustamente chiosava “non c’è liberato né liberazione, né alcuno che sia in schiavitù”, questa liberazione è ogni volta la Prima, quella delle Acque primordiali, e di nessun io-altro. Le acque hanno facoltà di scorrere senza alcun supporto né azione di alcuno, la natura dell’acqua è fluire; e qui l’acqua si trova per metonimia al posto del nome più altisonante e metafisico, Brahman, la cui natura etimologica è espandersi, espansione, la cui forma primaria è il Suono. La prima cosa creata è l’acqua, su di essa si espandeva la radianza (arka), la possibilità delle luce di farsi visibile, illuminante, e la radianza è adorazione, calore, tapasya: con lo Yoga si ottiene la visione della Luce, “illuminazione”. Tutt’altro che semplificativo e personale, è il vero farsi corpo cosmico e impersonale. Ciò che era bloccato fluisce, ciò che già era, infine, è.
Il confine tra io e Sé è difficile da demarcare con una riga dritta, è il luogo stesso della non-dualità. La parola saggia deve provenire dal vissuto diretto, dalla profonda conoscenza di sé e della sofferenza dell’anima, trasformata attraverso il percorso spirituale, con l’umiltà, la resa incondizionata e l’opera. Anche tra arrendersi e operare c’è un confine tutt’altro che definito, si può operare una trasformazione solo dove c’è piena accettazione di sé, resa alla realtà, allora la Realtà si offre per diventare lavoro e conoscenza, da sé, come pietra/corpo filosofale e laboratorio alchemico. E’ solo così che infine si sarà domato l’elefante brado che si agitava nella mente. Nel mondo animale, l’elefante brado è un gigante distruttore, al cui passaggio anche gli alberi si spezzano, esperienza primitiva alla base della metafora, quella che viene espressa con gli occhi di un abitante delle zone rurali dell’India, che vede il veicolo di Indra agitarsi attorno ai labili confini del villaggio, in procinto di farvi ingresso rovinosamente. La mente è di solito associata all’elafante brado, perciò si dice, va domata. Ma è il Dio, per il teurgo, l’elefante che deve essere condotto a entrare domato, bardato e solenne nella stanza del cuore.
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L’Opera del Fuoco
Quando Gorakh afferma che “solo l’azione è l’essenza della realizzazione”, sta definendo un tema molto specifico, che differenzia il suo sentiero dalla visione quietista della pura contemplazione intellettuale. Quando il pensiero vedico era già stato scosso alle fondamenta dal Buddhismo, Shankara aveva infatti affermato che la via dell’azione e la via della Conoscenza sono incompatibili e si escludono mutualmente, problematizzando perciò la consequenzialità tra la dottrina vedica rituale e la realizzazione spirituale dell’Atman, come espressa nei Brahmana. Per il Vedanta ci sono due vie, quella delle Opere (Karma Marga) e quella della Conoscenza (Jnana Marga), il doppio sentiero, già espresso nelle Upanishad e ridefinito da Shankaracharya. Il primo riguarda la via rituale, o Via dei Padri, la Pietas indiana, che sostene la continuità dell’Anima Mundi, Prajapati, come essenzialmente rituale, nella continuità generazionale e liturgica. Per essa, il Genius immortale del mondo, il Creatore stesso, abita la specifica gestualità religiosa e costituisce un Logos fondante originario, che è la lingua del rituale, elaborata nei Brahmana, e sorretta da un sistema di correlazioni simboliche e di enigmi, che sono la presenza elusiva di Prajapati, contenuto e ri-velato nei Veda, la presenza divina visibile e invisibile dell’essere-in-atto, nel darsi del sacrificio. Il rito serve agli uomini in quanto serve a Dio, restituendogli interezza, alla sua stessa sopravvivenza e ri-velazione, insieme alla creazione che con esso si perpetua. Agni, il fuoco, era la divinità a cui spettava il compito di ricostruire il perduto dio demiurgo alla sua integrità rituale.
L’Atman nella dottrina vedica arcaica, in origine, è un doppio celeste, un corpo immortale di luce, che si forma dall’opera rituale, costruito dall’officiante e dai sacerdoti grazie alle loro opere teurgiche, e da essi posto in un mondo celeste invisibile, quale anima personale che guida e protegge il suo doppio terrestre, dal cielo ulteriore, a cui infine l’iniziato si sarebbe ricongiunto gnosticamente. La difficoltà di questa espressione, anche a livello logico, favorisce la diffusione della più accettabile idea che l’Atman, essendo fondato nell’eterno, non necessiti di nascita alcuna, né di essere prodotto dai canti e dalle offerte sacrificali, che però continuano a costituire una protezione per l’uomo pio, e un vantaggio in questo e nell’altro mondo. Ma l’Atman, nella sua definizione compiuta, non necessita nemmeno di questa funzione residua, esso si può conoscere per intuizione, noeticamente. E un passaggio “sul filo del rasoio”, che potremmo definire da gnostico (priorità dell’iniziazione, conoscenza delle formule, dei riti e delle stratificazioni ultramondane) a noetico, dove la conoscenza sola è veicolo della conoscenza dell’Essere.
L’Atman delle Upanishad si fonda solo in sé stesso, ha la stessa natura del Brahman, che passa, sul filo del rasoio, dall’essere il corpo testuale e rituale dei Veda a diventare l’oggetto enigmatico della dottrina segreta Veda: ciò di cui parlano i Veda, ciò che può essere conosciuto in base alle formule dei Veda, divenuto esperienza di sé. Anche questa una distinzione sul filo del rasoio, l’una e l’altra cosa rappresentano il rinnovamento della personalità cosciente e la sua individuazione in un sé ultracosmico e atemporale, l’Atman, pur differendo nelle procedure, da un livello eminentemente pratico a quello interiorizzato. Ma l’avere completamente dimenticato l’origine rituale e teurgica del concetto di Atman (che era ancora viva in Shankara e Gaudapada) ha deprivato la conoscenza spirituale dei moderni del suo fondamento, facendo scivolare la dottrina a farsi un’operazione quasi semantica, puramente intellettuale, fino alla deriva sentimentale e sostanzialmente nichilista che inevitabilmente l’”elefante brado” farà prendere al discorso. L’Atman resta il Mistero, il Sé, che infine mai può totalmente essere svelato e messo nero su bianco, che in ogni caso va vissuto come l’esperienza sacrificale di sé, di cui si può infine assaporare e condividere il succo, come del Soma sacrificale: perciò esso è, per Gorakh, frutto di un’Opera, un azione consapevole e direzionata, noetica ma anche alchimistica, predicabile ma mai completamente comunicabile, di cui mai si potrà svelare effettivamente il “segreto”.
Per quanto concerne la Conoscenza, il nodo è sciolto: “l’uomo stesso è il sacrificio”, è il Mahavakya che è espresso nella Chandogya Upanishad. Il sole che si leva e percorre l’arco giornaliero, il fuoco sacrificale che si accende e le operazioni con cui lo si consacra, e le fasi della vita umana costituiscono una continuità formale e simbolica indissolubile, il paradigma dell’Unità indivisibile dell’essere che agisce parallelamente su tutti i livelli, in alto come in basso. Quell’unità è un Sole ulteriore, simile al sole ipercosmico di Platone, sole invisibile che è invocato nell’Isha Upanishad, quello che è nascosto dietro il volto luminoso, che mai tramonta. Quel Sole invisibile è la vera luce, l’Atman, di cui il transito visibile nell’universo è l’effetto come di una forma forgiata con l’oro, come la schiuma lo è dell’acqua.
A svolgere la grande Opera, sul paradigma offerto dal sole e riprodotto dal sacrificio, è l’ardore, il Tapas. Significa irradiare calore, riscaldare, splendere, ma anche consumarsi per effetto del calore, e infine, anche il soffrire di questa consumazione per mezzo del fuoco.
Tapas si manifesta come energia, o come risultato di uno sforzo. Il termine indica sia il mezzo che il fine, è tapas lo sforzo e tapas è il calore prodotto. E’ la sofferenza o la trasformazione prodotta dal calore intenso, e il calore stesso. Così Tapasya, ciò che è dato dal calore, diventa sinonimo di penitenza, austerità, ascesi, ma anche del potere di trasformare.
Tapasvin, nella tradizione dello yoga, è colui che possiede il Tapas, quindi che è diventato lui stesso come il fuoco, come il sole, della stessa natura del fuoco e del sole, è termine per indicare colui che soffre delle pene, che è estremamente povero, ma anche infinitamente potente: colui che sottoponendosi all’ascesi yogica, o mediante le pratiche rituali, esposto al calore di queste, ha acquisito il potere del tapas, il potere della trasformazione… Come il sacrificio, come un mattone che costruirà l’altare sacrificale, lo yogi deve “cuocere”.
Il sacrificio del Soma è senza dubbio il motivo che meglio illustra questo processo. Il soma “è-e-non-è” una bevanda, esso è di certo l’esperienza dell’ebrezza, come il dionisismo nell’antica Grecia. Dioniso era un dio elusivo, era sì un’entità che poteva essere indicata come tale, ma la sua adorazione e la sua manifestazione erano nell’ebrezza, che ne rappresentava la teofania e la presenza, nell’intossicazione e nel tipo di frenesia che ne seguiva, che erano esperienza del soprannaturale che si impossessava della coscienza umana. Allo stesso modo, il Soma è l’esperienza del complesso rituale e delle sue osservazioni sui piani sottili; l’officiante deve contrattare l’acquisto della materia prima con i demoni, poi uccidere e spremere il dio Soma, pagare per questa colpa il suo compenso espiatorio, quindi eliminarne la tossicità del composto liturgicamente e infine può condividerne il corpo sacrificale con gli altri convenuti al sacrificio. Una messa solenne in cui si medita la trasformazione dal naturale al divino, la morte di un erba “demoniaca” e la sua resurrezione in nettare sacro e attivo, seme e sangue di una comunità.
Il Soma era purificato per surriscaldamento dalle impurità: “ciò che è freddo, il cui corpo non è stato scaldato, non raggiunge lo scopo; ciò che è stato cotto (srtasa), insieme a coloro che l’hanno trasportato, lo raggiungono” (RV). Coloro che lo trasportano sono gli Asvin, i gemelli divini dalla testa di cavallo, che si possono associare ai soffi che dalle narici conducono il Prana. Dunque il Soma è trasportato a temperatura dai soffi vitali. Ancora il RV: “Nessuna creatura il cui corpo non sia stato scaldato, e che è ancora cruda, lo può raggiungere; ma colui che è stato cucinato, lo trasporta, lo ha raggiunto.”. Questa è solo una parte, per necessaria brevità, esemplare del significato che l’Opera del Fuoco aveva nel rituale vedico, in questo caso in relazione all’ebrezza, al “dio dell’ebrezza”, evocato da Gorakh.
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Oracoli Caldaici
La linea di separazione è sottile, come il filo del rasoio, dice Gorakh, contemplazione e espressione rituale o oracolare, hanno sempre patito della saccenza dei dotti, come dell’ignoranza superstiziosa dei praticoni. Pochi sono coloro che hanno colto la non dualità. In Occidente, ad esempio, Plotino è conosciuto come il filosofo della pura speculazione, ma i suoi discepoli, Proclo, Porfirio, ebbero più di un legame attivo con le tecniche oracolari e le opere teurgiche, pur condannandone le volgarizzazioni. La contemplazione del filosofo è Opera del Fuoco. La conoscenza sacra possiede il potere di evocare, interrogare, legare, e (oseremmo dire) di creare le divinità, per cui la pura conoscenza noetica è infine identica al Principio Supremo stesso, sotto la cui bene-volenza tutto il cosmo si ordina e si compone. Perciò filosofia e magia finiscono per saldarsi, in un punto superiore, la Conoscenza, che è il Supremo Bene stesso, e unità di conoscenza, conosciuto e conoscitore. La conoscenza è cosiddetta “del Sé”, proprio perché non sussiste differenza tra soggetto e oggetto e con il metodo stesso del conoscere. Solo così si può identificare questa posizione ermeneutica senza che nella mentalità teurgica-ermetica si crei alcuna frattura tra le due funzioni, noetica e pragmatica. L’opera del fuoco, quindi, è la chiave della realizzazione. L’opera del fuoco è il paradigma della conoscenza sacra.
Su questo “filo del rasoio” si situano alcuni testi ermetici occidentali, come gli Oracoli Caldaici, che sembrano dialogare con Gorakhnath. «Un momento peculiare nel sentire arcaico è la fase di transizione del tardo-ellenismo, con la sua incredibile efflorescenza di culti sincretistici in bilico tra integrazione e rifiuto del Cosmo. Un suggestivo crocevia culturale splendidamente effigiato dalla teurgia oracolare cosiddetta “caldaica”, fase terminale di una tradizione platonica mutata nei secoli dalla collisione con realtà allogene. Gli Oracoli Caldaici sono, quindi, la testimonianza di un platonismo ibrido che coniugava metafisica e magia in un insieme inscindibile: la vis teurgica consisteva in una “magia” in grado di evocare gli dèi attraverso gli incantamenti rituali e di utilizzarne i poteri a proprio vantaggio, probabilmente con il fine di favorire l’evoluzione spirituale dell’iniziato, che dal mondo materiale si innalzava alla Luce intellegibile.» [EZIO ALBRILE, IL SOLE IPERCOSMICO E LA LUCE INTERIORE – Aspetti del neoplatonismo teurgico.]
Il Frammento 9 degli Oracoli Caldaici ingiunge l’iniziato a “non trattenersi dall’intuire”.
Con questa ammonizione si può interpretare Gorakh, al verso 61:
Ciò che era incompleto diventa compiuto
E ciò che era bloccato infine fluisce.
Cosa deve completarsi, è la conoscenza, e la meditazione deve fluire senza blocchi, l’intuizione arrivare limpida e sonante, senza ostacoli, senza che nulla la trattenga o la impedisca.
Tutte le ingiunzioni apparentemente morali, i precetti di continenza e di purificazione dei veicoli fisici e mentali, dovrebbero essere compresi solo a questo scopo. Sebbene inizialmente un apprendista, o uno spirito ancora giovanile, possano illudersi che la potenza spirituale potrà manifestarsi senza ostacoli in circostanze non protette e in qualsiasi condizione mondana, la sua facilità è dovuta alla marginalità delle intuizioni che sopravvengono inizialmente. Spesso una abbagliante visione ancora acerba fa illudere di essere giunti a conoscere il vero e il soprannaturale, tanto più esso sembra improvvisamente accessibile, spettacolare, inconfondibile, oggetto di una singolare esperienza e di emozione. Perciò Gorakh dice, esemplificando le possibilità offerte a tutti, ma incomplete:
Se si trovasse nel corpo, potresti cercare nella sua posizione
Se fosse nella foresta, tutti gli animali selvatici sarebbero dei siddha.
Se fosse nel latte, si estrarrebbe nel ghee. [verso 62]
L’intuizione noetica è un lavoro molto più sottile, la cui possibilità è rara e deve essere protetta dalle appropriazioni intellettuali e volitive. Le istruzioni ascetiche rappresentano di fatto l’ascensione, il raggiungimento e la consacrazione di un luogo separato e distante dal mondo ordinario. La separazione diventa il luogo della conoscenza filosofica. Questo non-luogo è l’essere “sospesi”, la sospensione del giudizio e delle opinioni, che ritorna anche nella riflessione moderna, l’epoché. Prerequisito per ogni indagine scientifica, per una osservazione del fenomeno quale esso è, senza pregiudizi, perfino senza considerare il suo “esistere” o non esistere (Husserl), la sospensione è anche il luogo in cui Proclo, seguendo Platone, pone la coscienza dell’Iniziando Alcibiade, quando Socrate riesce a distoglierlo dalle sue conoscenze parziali e incomplete sulla natura del bene e del giusto, mostrandogli le aporie che contengono inconsapevolmente (la doppia ignoranza). Il mondo, perciò, viene “messo tra parentesi”, sospeso. Lo sguardo dell’osservatore può solo rivolgersi alla conoscenza intellettuale pura, salendo verso la fonte, l’origine del vero Bene.
Senza questo passaggio “intermedio”, ma già altamente filosofico, la conoscenza spirituale non è accessibile. Nel pensiero gnostico, come in alcune formule neoplatoniche, il luogo intermedio è il luogo della Potenza. La Potenza è l’ebbrezza divina, la sospensione è un luogo di vertigine, perché ogni appiglio e terreno è stato abbandonato, ed è perciò solo possibile esperire il traboccamento della realtà che si riversa senza barriere, la vibrazione potente che scaturisce dall’origine, prima della definizione formale, come pura energia vibrante e potenziale di essere, la sua presenza attiva, parlante. Shakti è, prima di farsi linguaggio, pratibha, illuminazione, percezione diretta: appercezione dell’Uno stesso come coscienza di essere, senza forma, che per mezzo di Lei si fa sensibile e conoscibile. Questa Potenza dove abita il Dio nascosto, altro non è che il Vuoto, la Potenza è l’ebrezza divina che vi penetra senza impedimenti.
Sollevato tra l’alto e il basso,
Seduto nel mezzo del vuoto.
Lì incontrerai (il dio dell’)l’ebbrezza.
Gorakhnath dice: “Così ho raggiunto l’essenza”. [verso 78]
Alla piena comprensione del Vuoto, Gorakh dedica una buona parte della sua opera, in particolare il Gorakh Bodh e, tra gli altri, l’Amanaksha Yoga. Nel Gorakh Bodh il Vuoto è postulato uno stato “dato” dell’Essere, che dotato di uno statuto ontologico; nel secondo, invece, l’Amanakasha, una serie di esercizi di semplice concentrazione conducono lo yogi a fare pratica con lo stato di Laya, dove si riassorbono i sensi nel silenzio profondo e, a seconda della perseveranza e della profondità dell’esercizio, si può giungere all’acquisizione delle Siddhi, i poteri mistici e soprannaturali, che conferiscono le qualità divine alla personalità divinizzata dello Yogi.
Deriva da Gorakh per lignaggio, il prezioso Vijnana Bhairava, in cui l’esperienza del Vuoto è veicolata da 120 esercizi di visualizzazione esemplari, pratici. La visualizzazione meditativa può avvalersi dei sostegni che sono indicati negli esercizi, ma lo stesso metodo la visualizzazione apre ad altri scenari di immaginazione attiva, per cui la scelta e la possibilità date anche da antichi rituali che si tenevano nell’area del Mediterraneo, allo steso scopo, possono suscitare per noi l’effetto desiderato, rievocare il cosiddetto “ricordo” platonico, la reminiscenza, il passaggio allo spazio-tempo vuoto, anteriore e inabitato, pervaso dal dio stesso. Lo yogi “abita” l’unamani, abita il vuoto: la sua coscienza, liberandosi dei legami contingenti può dirigersi dove vuole, è Kechari, volante, disarticolato dal basso come dall’alto, come il giovane Tat, istruito da Ermete a raggiungere qualsiasi luogo dello spazio e del tempo per dimostrare la sua raggiunta natura divina.
Il filo del rasoio si assottiglia ulteriormente se dobbiamo stabilire come questo passaggio si debba verificare. Gli Oracoli Caldaici aprono proprio con la discussione dell’inclinazione, come avevamo accennato a proposito della “storta” dell’alchimista. La Conoscenza si deve accogliere, piuttosto che ricercare. La disarticolazione delle membra dello yogi sembra mettere in scena la negazione della postura, lo smembramento del corpo mentale in favore della ricomposizione mistica di un corpo divino, concepito nel fuoco dell’intuizione.
«c’è un intuibile che devi cogliere con il fiore dell’intuire, perché se inclini verso di esso il tuo intuire, e lo concepisci come se intuissi qualcosa di determinato, non lo coglierai. E’ il potere di una forza irradiante, che abbaglia per fendenti intuitivi. Non si deve coglierlo con veemenza, quell’intuibile, ma con la fiamma sottile di un sottile intuire che tutto sottopone a misura, fuorché quell’intuibile; e non devi intuirlo con intensità, ma – recando il puro sguardo della tua anima distolto – tendere verso l’intuibile, per intenderlo, un vuoto intuire, ché al di fuori dell’intuire esso dimora.» [Oracoli Caldaici,fr.1- traduzione a cura di Angelo Tonelli]
Intuibile e intuizione non sono perciò oggetti determinabili, ma condizione dell’essere, che si apre, come “fiore”, sul “vuoto”. Ricettività pura che susciterà per complementarietà forza irradiante e fendenti: così il Rudra degli inni vedici appare rutilante e roboante, anziché quieto e meditativo, forma della potenza, militare, estatico, dirompente, fiammeggiante come il sole. L’irruzione del Dio è scandalosa, radicale, “armata”. E’ folgore e fiamme che squarciano la notte della coscienza.
Eppure tra il vuoto che lo evoca e il potere che si manifesta non c’è discontinuità, non c’è alcuna dualità. Il Vuoto è la Potenza, la Potenza è il Dio stesso. L’intuire e l’intuìto, l’oggetto dell’intuire, sono la stessa cosa. Shiva e Shakti sono uno.
Completamente rivestito del colmo di una luce risonante, armato anima e mente di una forza come spada tricuspide, getta nel cuore il simbolo della molteplicità come un grido di guerra – non ti aggirare per canali di fuoco disperdendoti, ma concentrandoti. [Oracoli Caldaici, Fr.2 – ibidem]
Ecco comparire il Dio segreto, armato del trishula. La molteplicità è il suo grido, Rudra è l’urlante, che fa vibrare le potenze nel cuore del mondo, il suo suono incausato, cuore di ogni cosa. Tutti i canali delle Nadi che portano energia agli organi (come molteplicità degli oggetti sensoriali) sono riconvertiti, ritornano a concentrarsi nel fuoco centrale (il cuore), la suo comando. E’ Agni, che ricompone l’Atman di Prajapati, l’anima del Mondo dispersa nelle diverse forme dell’Io e del mondo. Vero Agnicayana, vero fuoco sacro, è l’Atmanyajna.
la potenza è con esso, e il nous da esso promana. [fr.4]
[…] è il nous germinante da nous l’artefice del mondo igneo [fr.5]
Tutte le cose sono scaturite da un solo fuoco [fr.10]
voi che intuendo sapete l’abisso paterno sovracosmico [fr.18]
ogni intuire questo dio intuisce [fr.19]
senza intuibile non esiste intuizione, e senza intuizione non esiste intuibile… [fr.20]
… intuibile che in sé stesso l’intuente contiene [fr. 20 bis]
E’ dal Dio stesso che proviene l’intelligenza capace di intuirlo. Non è opera umana, ma neppure altro dalla facoltà umana dell’intuire stesso: l’opera di cui parla lo Yogi o il teurgo caldeo è propriamente “opera del fuoco”.
Dio è esperienza di Sè, intuizione noetica. Dio, l’Intelligibile plotiniano, l’intuibile noetico è il Nous stesso, l’elevazione della coscienza a ricevere il “mondo igneo” dell’intuizione.
Questa interiorità è “abisso”, è “padre”, luogo “sovracosmico”, è “il Regno dei cieli dentro di voi”: il luogo in cui tutte le divinità abitano, da cui tutte le divinità si possono trarre e interrogare, è perciò “oracolo” per i caldei, così come Gorakh dice è il Tempio, per gli yogi, o la Realtà Suprema.
Un indù adora nel tempio,
Un musulmano adora nella moschea.
Uno Yogi adora nella Realtà Suprema
Dove non c’è né tempio né moschea. [verso 68]
Il “solo fuoco” da cui tutte le realtà (superiori, sovracosmiche) sono scaturite e possono scaturire, noeticamente. “Dove la monade paterna dimora” [Fr.11], e “non suscita paura, ma infonde persuasione” [fr. 14]. La parola scritta o ascoltata può suscitare timore e dualità, ma l’esperienza è la piena persuasione.
Senza intuizione dunque è inutile venerare, digiunare, implorare un dio, senza intuizione non esiste intuibile [fr.20]. Così il fr 15, “ah, infelici che non sapete che dio partecipa dell’eccellenza (del fiore dell’intuire) , digiunate…” che sembra ripetere le ammonizioni di Gorakh a chi si prodiga di voti e di rinunce senza però sviluppare la vera conoscenza. Infine, è il Dio (intuibile) che contiene l’intuente, lo yogi, che dunque in quella potenza o vuoto è situato, grazie alla sua intuizione.
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La Montagna Sacra
Ogni parola vana sembra ostacolare e far ritrarre la sorgente noetica, che si trova in un luogo inaccessibile, che raramente è dato trovare. Abbiamo la suggestiva immagine dello Yogi, quindi, che vestito di un abito di fuoco, cioè dell’opera del fuoco, raggiunge la cima inviolata, il Nord, dove può finalmente bere alla fonte della Parola purissima, della conoscenza noetica. Sembra avere compiuto il cammino fino alla vetta del “monte analogo”, e lì avere raggiunto l’unica fonte a cui può dissetarsi. [verso 67]
67. Viaggia verso il Nord, mangia il frutto del vuoto,
Indossa gli abiti di fuoco dell’ardore.
Quindi bevi alla fonte del nettare
La mente si placherà.
Probabilmente il più celebre scalatore della Montagna Sacra in Occidente fu il carmelitano San Giovanni della Croce, che dedica un libro mistico e autobiografico all’impresa, la Salita del Monte Carmelo. E’ un libro di ascesi radicale e intellettuale, in cui lo scenario è dominato da due polarità, la notte oscura da cui proviene il mistico, e l’amore per l’Amato che spinge a salire l’arduo sentiero. Tra le due dimensioni si aprono diversi cammini, la maggior parte infruttuosi, mentre solo la rinuncia ad ogni attaccamento e desiderio terreno porta al compimento: «La divina luce dell’unione perfetta di amore con Dio possibile in questa vita» (Salita, prologo1). A questa via radicale, nella stesura originale, il mistico dedica una mappa sorprendentemente concettuale.
[*] Tre sentieri partono dalla base del disegno verso l’ovale della circonferenza.
Nel sentiero di destra e in quello di sinistra è scritto «cammino di imperfezione»; in quello di mezzo invece, che più degli altri si spinge verso l’alto, è scritto: «Salita del monte Carmelo. Spirito di perfezione. Nulla (scritto 6 volte). Anche sul monte nulla.» Il sentiero termina all’esterno della piccola circonferenza formata dalle parole: «Vi introdussi nella terra del Carmelo perché ne mangiate i frutti», (Ger. 2,7) nel cui centro è scritto: «Solo dimora in questo monte l’onore e la gloria di Dio». (Is. 35, 1-2, 5-7)
Nella parte inferiore, alla base, dove inizia l’ascesa, la salita al monte, il santo ha scritto i principi, consigli rivolti all’anima che vuole iniziare la salita in vista dell’unione, e tracciato il cammino. Poi, a corona: virtù, doni e frutti dello Spirito Santo. All’esterno di questa corona, dall’una e dall’altra parte, si legge un’affermazione di superamento e di liberazione: a sinistra: «Nessuna cosa mi esalta», e a destra: «Nessuna cosa mi rattrista», usando ancora il termine Nada.
Più in alto, al margine del monte un’ultima scritta: «Qui già non vi è più sentiero perché per il giusto non vi è legge, egli è legge a se stesso».
Solo il sentiero del nulla conduce alla cima del monte, ma per raggiungerla bisogna staccarsi dai beni sensibili, terreni.
Il sei volte ripetuto: “Né questo”, mediante frecce, è in relazione ai beni della terra: ricchezze, gaudio, sapere, consolazione, riposo; mentre i sei: “Né quello”, alla stessa maniera si riferisce ad altrettanti beni indicati quasi con gli stessi nomi, ma “del cielo” quelli spirituali: gloria, gaudio, sapere, consolazione, riposo.
Bisogna saper dire di no a tutto quello che non è Dio, perché quando si cerca quel che non è Dio si stringe il nulla. [* Tina Ciaffaglione ocds, Il Carmelo di Sicilia]
La via negationis, o apofatica, del santo che procede per progressivo distacco dal mondo, o del discernimento spirituale è quella che fa dire a Giovanni “Nada Nada”, così come lo Yogi indiano dice “Neti Neti”: né questo né quello. Il dualismo con cui sono lette queste esperienze da una percezione viziata da un distacco imperfetto, fanno intendere il percorso in chiave morale. Ciò che il santo scopre invece inadeguato e infruttuoso è proprio ogni elemento che potrebbe costringere la visione di Dio entro un modello mondano e convenzionale. Per raggiungere la libertà da queste restrizioni della libertà spirituale, deve liberarsi dei costrutti che legano ad esse, che costringono a mantenere un atteggiamento evitante, marginale, rispetto alla realtà divina, che non può essere parziale, ma deve trasfigurare chi la incontra. Questo processo non è fatto di forme esteriori di digiuno e contrizione ma consiste in autentica liberazione, o svuotamento, Kenosis. Questo svuotamento è la vera imitazione di Cristo, secondo il mistico Cristiano, la condizione che avvicina a quella del Salvatore, che sulla Croce abbandona ogni residuo della personalità e della volontà. Solo in questa chiave, il mistico riconosce la liberazione.
[**] Anche in Renè Daumal e nel suo libro Il Monte Analogo viene tracciato un camino di avvicinamento alla montagna di ordine interiore, un itinerario iniziatico e metafisico costruito attraverso una cifra simbolica narrativa di cui la montagna è un archetipo, un modello:
Non parlerò della montagna, ma per mezzo della montagna. Con questa montagna come linguaggio, parlerò di un’altra montagna che è la via che unisce la terra al cielo, e ne parlerò non per rassegnarmi, ma per esortarmi.
Daumal parla di un “alpinismo analogico” ove l’analogon non è tuttavia riconducibile a coordinate geografiche. Non c’è stasi e quiete, salita e discesa si rispecchiano e si fondono in una Necessità.
Si può parlare di una maieutica ascensionale, nel senso socratico di un far nascere e venir fuori ciò che è ancora occluso, nascosto, non visto. Tale espressione, introdotta da Marie Magdelaine Davy ( 1903-1998), filosofa e teologa, può anche essere espressa con il termine dialettica, con cui Platone nel Simposio descrive il movimento; acquisiamo altri sensi dopo aver superato la tirannia di quelli esterni che “ci buttano nella deconcetrazione”. L’esperienza del perdersi, che è tipica dell’uomo orizzontale, viene invertita e riscattata mediante un passaggio di grado, come scrive Gregorio di Nissa indicando nella salita la via sacra ed unica, la più sicura e fidata.
Gregorio, ispirandosi a Platone, conferisce al mondo immateriale lo statuto di vera realtà, opposto al mondo materiale che è apparenza (Repubblica, VI, 508c; VII, 514a); da questa apparenza che confonde ed ottenebra, usciamo mediante l’acquisizione di ali interiori. Una nuova intelligenza spunta di sorpresa; questi sensi interiori ci conducono dalla pianura, ove prevale la dimensione dell’orizzontalità, alla verticalità del profondo.
L’uomo pneumatikòs ha compiuto in sé una metanoia, una trasformazione radicale che pur non negando il tessuto umano di cui è fatto, gli permette di non restarne irretito. Egli è quindi in cammino, leggero, verso l’alto, ha dato spazio in sé alla dialettica ascensionale che è liberante, catartica. [** Roberto Taioli, LA MONTAGNA E IL SIMBOLISMO]
Occorre qui comprendere bene il pensiero dell’Analogia, che unisce gli scritti mistici e tradizionali. Come potremmo associare nello stesso percorso, la teurgia pagana, lo gnosticismo, la mistica carmelitana, lo yoga, l’alchimia? Non è semplice sincretismo. Giovanni della Croce scriveva in piena Controriforma, niente poteva essere più lontano da lui della teurgia pagana. Ma il suo Monte è il medesimo che salgono gli Yogi, la Kenosi è lo stesso Vuoto, la fonte e il ristoro dell’Amato sono la Fonte ricercata dallo Yogi, e l’Elisir che opera la trasmutazione dei metalli nell’alchimia. Eppure ciascuno di questi termini, non è letterale, ma una forma di analogia, o anagogia. Il monte analogo è l’oggetto stesso, infine, inesprimibile, che è il processo di espressione e, insieme, l’esperienza. Tutta l’esperienza spirituale si svolge dentro un territorio “analogo”, che chiameremo, sulla scorta di H. Corbin, il Mundu Imaginalis. Il mondo delle idee platonico, degli Arché, ben più universali e potenti degli archetipi psicologici di Jung, e dotati di un loro scopo, capaci di innescare una catena di eventi, ineluttabili, concreti. L’attraversamento del territorio spirituale è l’attraversamento del territorio imaginale, dove parola e esperienza coincidono grazie all’opera delle entità archetipe. Questa Parola è l’acqua profonda del Cosmo, lo Stige che bagna l’Ade, il mondo infero in cui l’io è annientato, e che circonda la terra in ogni sua parte, è l’Oceano. Nell’India vedica è Varuna, il profondo, l’abissale, colui che vigila sui giuramenti. Negli Oracoli Caldaici è la cintura di Hekate, che come l’oceano circonda la terra. Le stelle brillano su di esso come forme astrali e impersonali dei corpi e da cui i corpi e le esperienze prendono forma. Da questa Acque è nutrito e prende vita il germe della resurrezione del corpo umano e mortale nel corpo cosmico o Pneumatico. La forza dell’Analogia è di essere Maieutica, di produrre la nascita dalla acque amniotiche dello spirito, risollevando il destino dalla morte in cui giace come nella tomba. Di questo mistero, è fatto il Corpo Pneumatico, di cui andiamo a cercare le fonti.
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Pran Purush, l’Uomo Pneumatikòs
Così, questo yogi sapiente non è fatto di carne, di intelletto e di determinazioni relative, ma è “pneumatico” fatto del respiro che abita ogni corpo vivente, l’esperienza della sua fluida e volatile materia psichica. L’anima è soffio, colui che è fatto di soffio abita ogni essere, e ogni essere conosce dall’interno e per esperienza. La non dualità è sostanziarsi in quel soffio e a quello solo dare parola, con discernimento (senza rivelare il segreto).
Infine, in un testo indiano incontriamo una definizione strettamente gnostica, l’uomo pneumatico (pran purush), che ritorna negli scritti di Ermete, di Valentino, e fino all’apostolo Paolo.
81. Tra il loto inferiore e il loto superiore
È il Pran Purus (l’uomo pneumatico)
I dodici hamsa invertiranno il loro movimento,
E solo allora la luce splenderà.
L’umanità è divisa in tre specie in base alla natura di ognuna, cioè: la pneumatica, la psichica e la ilica, mantenendo il tipo della triplice disposizione del Logos dalla quale furono prodotti gli ilici, gli psichici e i pneumatici. Ognuna di queste tre stirpi si riconosce dal suo frutto. Esse tuttavia non erano note prima: fu l’avvento del Salvatore ad illuminare i santi su se stessi e rivelò di ognuno ciò che è. La stirpe pneumatica, essendo luce da luce, e spirito da spirito, accolse con sollecitudine la gnosi per mezzo della rivelazione. La stirpe psichica, essendo una luce che deriva dal fuoco, esitò a ricevere la conoscenza di colui che le si era rivelato in modo sovrabbondante, esitò a precipitarsi verso di Lui con fede, nonostante fosse stata istruita abbondantemente dalla viva voce, e si accontentò di ricevere il pegno delle cose future. Essi sono “quelli del pensiero, “quelli del mezzo”, “quelli della destra”. La stirpe ilica è straniera sotto ogni aspetto, in quanto è oscurità che al sopravvenire della Luce sarà scartata poiché il suo apparire la distrugge. Essi sono definiti “quelli del pensiero d’orgoglio”, “quelli della sinistra” [Trattato Tripartito 118,14- 122,27]
Nel Nuovo Testamento, specialmente in san Paolo, questo principio trascendente dell’anima umana è chiamato «spirito» (“pneuma”), «lo spirito in noi», «l’uomo interiore», e in senso escatologico anche «l’uomo nuovo». E’ significativo che Paolo, il quale scriveva in greco e non ignorava certamente la terminologia greca, non usi mai in questo senso il termine “psyche”, che pure fin dal tempo degli Orfici e di Platone aveva significato il principio divino in noi. Al contrario egli “oppone”, come fecero gli scrittori gnostici greci dopo di lui, «anima» e «spirito», «uomo psichico» e «uomo pneumatico». Evidentemente il significato greco di “psyche”, nonostante tutta la sua dignità, non era sufficiente ad esprimere la nuova concezione di un principio che trascende ogni associazione umana e cosmica, inerente al concetto greco. Il termine “pneuma” è usato in genere nello gnosticismo greco come equivalente dell’espressione «sé» spirituale, per il quale il greco, a differenza di alcune lingue orientali, manca di un termine proprio. [Hans Jonas, Lo Gnosticismo]
La tripartizione gnostica in tre nature spirituali, ricorda la suddivisione che il Vedanta opera considerando la prevalenza di uno o di una commistione dei tre Guna, Sattva, Rajas, Tamas, nella qualità personale. E’ un principio comune della mentalità tradizionale, una psicologia ante litteram (anzi, alla lettera, discorso sulla psiché, sull’anima), con cui, si stabilivano “tipi” e stili di comportamento, competenze e potenziale, ma anche la possibilità di trasformare attraverso i tre gradi di “colorazione” la personalità e l’energia disponibile. Questa possibilità era il principio della trasformazione alchemica, e la natura stessa sembrava agire per “colorazione” di una sostanza primordiale, che assumeva caratteristiche di lucentezza, densità e permeabilità, lavorandola attraverso il processo alchemico.
Così doveva avere fatto il Creatore, secondo il pensiero ermetico, riscaldando la materia e separando la schiuma che via via si formava con colorazioni diverse e lucentezza sempre più perfetta. E’ un processo ricordato nel libro ermetico Kore Kosmou, la Vergine del Cosmo. Essa, che è Iside, prende il posto dei Ermete per spiegare al giovane Tot come si originano le diverse forme viventi. Volendo trarre il mondo dall’inerzia della materia, Dio lo riempie di soffi (pneumata) e si mette all’Opera, mescolando e riscaldando il composto con discernimento, finché la materia così lavorata “sorride”, secerne cioè una schiuma più sottile, che chiama “animazione”. Il fenomeno si ripete per sessanta passaggi successivi, ciascuno dei quali forma la materia base per diverse tipologie di anime, secondo un ordine di perfezione decrescente. Poi il creatore forma i segni zodiacali, in figure umane e animali, con una mistura di acqua e terra “analoghi”, infine vi soffia sopra finché sulla superficie si forma una “bella tinta” e la dovuta consistenza. Poi, con il materiale residuo, plasma i corpi degli animali sul modello delle figure zodiacali, sui quali verrà instillato lo spirito vitale per mezzo dei segni zodiacali stessi, e quindi la facoltà di moltiplicarsi. Il Demiurgo Ermetico opera quindi come un alchimista e stabilisce il legami simbolici, che come una catena legano le forme terrestri e i corpi celesti, il basso con l’alto, secondo la regola ermetica delle corrispondenze. Tali legami sono gli elementi enigmatici che compongono il mondo come un libro aperto, in cui il cielo è sempre contenuto negli eventi e nelle forme dell’esperienza, leggibili agli occhi del conoscitore.
L’Opera del Demiurgo ermetico, indubbiamente svolta a mezzo del Fuoco, ricorda l’opera di Prajapati. Come Tat, Prajapati depone un uovo fecondato e gli ordina di portare il seme e di mostrare la sua Gloria. All’ordine perentorio l’uovo crea via via le manifestazioni cosmiche e nel contempo essuda una goccia (Asru), radice o sacrificio dell’anima che entrerà nella sfera successiva.
«10. Desiderava: “Possa io essere riprodotto da queste acque!” . Ed entrò nelle acque con la Triplice Scienza. Da ciò nacque un uovo. Lo toccò. ‘Che esso esista! Che esista e si moltiplichi!’ disse. Da esso fu creato per primo il Brahman (n.), la Triplice Scienza. Quindi dicono: “Il Brahman (n.) È il primogenito di Tutto”. Già prima della Persona (purusha) è stato creato il Brahman: è stato creato come sua bocca. Quindi dicono di colui che ha studiato i Veda, che “è come Agni”; poiché il Brahman (Veda) è la bocca di Agni.
11. Ora l’embrione che era dentro è stato creato come il primo (agri): in quanto è stato creato prima (agram) di Tutto, (si chiama) Agri: Agri, infatti, è colui che chiamano (allegoricamente) Agni; perché gli dei amano l’Enigma. E la goccia (aśru, n.) che si era formata divenne “aśru” (m.): “Aśru” in effetti è ciò che chiamano misticamente “aśva” (cavallo), perché gli dei amano l’Enigma. ...» [Satapatha Brahmana VI,1,1]
Nella froma di Agni/Agri, Prajapati può infine penetrare la Terra e dare un fondamento a tutte le creature che creerà in seguito. Infine si unisce con la Parola e dice: “tutte le creature sono nate così”, chiosa il Brahmana, dal seme dell’Eterno.
«1. Prajàpati desiderava: “Possa questo moltiplicarsi, possa riprodursi!” Per mezzo (o, nella forma) di Agni entrò in unione con la Terra: ne nacque un uovo. Lo toccò: ‘Possa crescere! Possa crescere e moltiplicarsi!’ Egli disse.
2. E l’embrione che era all’interno diede vita a Vāyu (il vento). E la goccia che si era formata divenne gli uccelli. E il succo che aderiva al guscio diventò pulviscolo solare. E il guscio divenne l’aria.
3. Desiderava: “Possa questo moltiplicarsi, possa riprodursi!” Per mezzo di Vāyu si unì con l’Aria: ne nacque un uovo. Lo toccò dicendo: “Esprimi la tua gloria!” Così fu creato l’alto sole, perché è il più glorioso. E la goccia che (aśru) si era formata divenne la pietra comune (aśman); perché “aśru” è in verità ciò che chiamano “aśman”, poiché gli dei amano l’Enigma. E il succo che aderiva al guscio divenne i raggi del sole. E il guscio divenne il cielo.
4. Desiderava: “Possa moltiplicarsi, riprodursi!” Per mezzo del Sole entrò in unione con il Cielo: ne nacque un uovo. Lo toccò, dicendo: “Porta il seme!” Così è stata creata la luna, perché la luna è seme. E la goccia che si era formata divenne le stelle. E il succo che aderiva al guscio diventò i punti intermedi; e il guscio divenne i punti cardinali.» [Satapatha Brahmana VI,1,2]
Lo Yogi, come l’Alchimista, deve estrarre dalla materia di cui è formato la Goccia, il Bindu, per poi purificarlo mediante passaggi successivi nella “storta” del proprio corpo acceso dai soffi. Con il calore del Tapasya, il Pinda corporeo sublima il suo Mercurio. Questo processo segue quello che Prajapati compie con la creazione, riportando la goccia dal freddo in cui è discesa, la pietra, alla qualità ignea ascendente a cui appartiene. L’opera alchemica del demiurgo in entrambi i casi ha il medesimo fine: ottenere la sostanza che “anima” la materia, che ne sia il principio di vita, la sua Anima. Il “magistero perfetto” è ottenere questa tintura.
Per il testo ermetico, il Mercurio Filosofale si presenta sempre come una schiuma che emerge dall’amalgama, simile a liquido seminale, bianco e brillante come la Luna, o come la rugiada. Questa tintura o elisir è altrove definita “acqua di fuoco” o “spirito liquido”, “acqua di vita” o anima dei metalli. Come un metallo o una pietra, inerte e morto, è il corpo mortale, che l’acqua divina deve nutrire e permettere di giungere a maturazione.
Il testo alchemico Il Dialogo di Cleopatra dice: “Come l’embrione nutrito nel ventre cresce in poco tempo… così accade a questa mirabile opera. Passando e ripassando su di lui, onde e flutti lo feriscono nell’Ade e nella tomba, dove i corpi giacciono: una volta aperta la tomba, risaliranno dall’Ade come l’embrione esce dal ventre”. I saggi quindi la interrogano perché chiarisca il mistero. “Dicci come le acque benedette discendano dall’alto per visitare i morti caduti, incatenati, oppressi nelle tenebre e nell’oscurità dell’Ade, come il ‘pharmakos’ della vita penetri nell’Ade e tragga i morti dal sonno per fare sì che si sveglino alla voce dei loro maestri… quelle acque che sono arrivate dalla luce” E Cleopatra risponde: “ Le acque penetrano nell’Ade, strappano dal sonno i corpi e le menti imprigionate e senza forza…. A poco a poco cresceranno, si alzeranno, si rivestiranno di colori screziati e brillanti come fiori a primavera, la primavera stessa si rallegrerà di felicità radiosa, della bellezza che al circonda.” inoltre: “Le piante, gli elementi e le pietre, quando le traete dai loro luoghi, sembrano belli e tuttavia non sono belli, perché è il fuoco che giudica tutte le cose. Ma quando si saranno rivestiti della gloria che viene dal fuoco e del colore sfavillante, appariranno allora visioni bellissime: ecco la gloria nascosta e la bellezza tanto cercata, la natura terrestre trasmutata in quella divina, quando queste cose saranno nutrite con il fuoco.”
Infine, l’anima chiama a sé il corpo divenuto luminoso: “Risvegliati dal fondo dell’Ade, resuscita fuori dalla tomba, alzati e esci dalle tenebre! Giacché hai accolto la spiritualizzazione (pneumatosis) e la divinizzazione (teosi), poiché la voce di resurrezione è giunta a te e il pharmakon di vita è penetrato in te”
Quindi “il corpo ha rivestito la luce della deità e le tenebre sono fuggite lontano da lui. E tutti e tre si sono uniti nell’amore, il corpo, l’anima e lo spirito, sono diventati uno e in questo è celato il Mistero. Con la loro unione il mistero è compiuto… Il fuoco li ha unificati e trasmutati, sono usciti dal ventre delle acque… è lui (il fuoco) che dalle tenebre li ha fatti uscire, dal lutto alla gioia radiosa, dalla malattia alla sanità, dalla morte alla vita e li ha rivestiti di gloria divina pneumatica…”
E nuovamente Cleopatra disse loro: “Le cose che vi ho appena detto trattano di esseri celesti e di divini misteri. Giacché smembrandosi e alternandosi, trasformano le nature e le rivestono di gloria sconosciuta e sovreminente che prima non possedevano”
“Dov’è il noûs, là è il tesoro” Vangelo Apocrifo di Maria.
Om Shiv Goraksh Adesh
Udai Nath, 3.3.2021