Natura, teurgia e conoscenza sacra negli Inni Vedici e nelle Upanishad. Seminario 13-14 Marzo 2021.
Il nome di Rudra, il Rosso, l’Urlante, il Terribile, è associato comunemente a un dio vedico delle tempeste. Le riduzioni naturalistiche, però, non rendono giustizia alla complessità della figura che lo Yajur Veda intende evocare con la litania delle forme e delle manifestazioni del Dio, che da subito si situa sul piano della Realtà Suprema, per diventarne l’invocazione potente e soprattutto estatica della presenza, la voce capace di persuaderlo a manifestarsi infine come la benevola figura, Shiva, capace di condurre il teurgo alla vetta della conoscenza, l’apice del monte analogo, dove solo il Supremo Dio domina e risiede.
Il carattere celeste di Rudra si evince anche nelle scritture vediche arcaiche, nel Rg Veda è il Dio del Cielo, le cui frecce cadono dal cielo, che discende sulla terra dal cielo, che dal cielo fa discendere le piogge. La sua connotazione perciò è Uranica, la presenza invisibile, “cielata”, che si nasconde nel cielo e discende visibile solo per le sue frecce, i fulmini e le tempeste, che ne segnalano l’approssimarsi. E’ il Padre primordiale, quello che abitava il Nulla prima della creazione ad opera del demiurgo inquieto Prajapati. E’ chiamato, tra i suoi mille nomi, con gli epiteti del cielo stellato, dai mille occhi, che veglia sulla creazione senza esserne afflitto, ogni parte del cielo corrisponde alle membra di Śiva-Kālarūpin, da cui l’intera volta celeste è pervasa. E’ il testimone della Creazione e il suo predecessore, il cosa e il chi prima di ogni altro, e il signore del tempo che sotto di lui si dispiega e del destino che le stelle imprimono con il loro moto regolare.
Il colore Rosso che lo definisce, soprattutto nel contesto rituale in cui si trova la litania delle sue evocazioni, lo situa a rappresentare l’elemento unificatore e primordiale rispetto a tutto il creato: Rudra è ipostasi di Agni, il Fuoco. Agni che è invocato dal Creatore stesso Prajapati affinché gli restituisca l’interezza, perduta nella creazione, e con essa lo Spirito, l’Atman, che nella creazione lo ha abbandonato. Rudra è quindi figura di Brahman, la Realtà Suprema, lo Spirito immortale che il creato non percepisce, ma lo yogi vedico, attraverso il sacrificio, ricerca incessantemente di recuperare: con il rito, con la preghiera e con l’ascesi.
Rudra è lo spirito invisibile che muove ed evolve, nascosto sotto gli occhi di tutti, il destino di tutte le creature, dalla prima all’ultima, l’alto come il basso. L’universalità con cui Rudra è evocato è una formula unica nella letteratura religiosa. Il Dio è personificato nel re come nel servo, nel condottiero come nel fante che marcia a piedi, nell’auriga che guida il carro, ma anche nel carro e nell’artigiano che ha costruito il carro. E’ dunque il condottiero, il soggetto, ma anche l’oggetto inanimato, il percorso e ogni mezzo, diretto e indiretto, applicato per conseguire la conoscenza, ed è colui che non ha mezzi e deve muoversi a piedi.
Egli è sfuggevole e rapido, imprendibile come un ladro che attende il passante nella notte senza luna, avvolto in un fitto turbante, appostato dietro una rupe delle strette strade impervie dell’Himalaya. Poiché è invisibile, ma i suoi fendenti e i suoi piani infallibili colpiscono senza scampo ogni vivente.
Perciò è come il Sole, veduto da
tutti: dalle donne che trasportano l’acqua dal pozzo e dai mandriani
che muovono le bestie, su tutti governa e a tutti è noto, di tutti
regola il tempo e lo spazio dell’esperienza, perciò nel Sole da
tutti è riconosciuto.
Dunque leggiamo questa lunga e dettagliata
preghiera, e restiamo stupiti del mondo brulicante che si offre a
noi. Perché davanti ai nostri occhi non troviamo un catalogo
convenzionale di buone intenzioni e di contrizioni devozionali, ma
una descrizione minuziosa, paradossale ed estatica di una realtà
sconfinata e tangibile, che lentamente si presenta sotto i nostri
occhi e ci investe, ci trasporta e ci integra in sé. Siamo alla
Presenza del Dio, tra le sue possenti braccia che stingono
nell’estasi.
Al Dio irato, conosciuto per le sue frecce letali, si chiede all’inizio di colpire il Nemico, con la sua ira e con le sue frecce; la morte è sempre accanto alla sua comparsa, dunque si chiede che non sia ucciso il devoto che lo sta invocando, non la sua famiglia, non i suoi figli, né i suoi servi o le sue bestie. Il teurgo si distacca con un passo coraggioso e determinato dalla moltitudine delle anime immemori di Sé, fa un passo oltre l’anonimato della moltitudine e la sua passiva ignoranza, vuole dirigere quelle frecce con il discernimento spirituale, e chiede perciò di essere salvato e dunque illuminato dalla visione pacificata e realizzata del Dio, e con lui tutti quelli che sono nelle sue cure e nei suoi affetti. Non una realizzazione individuale e intellettuale, ma una grazia piena, che discenda sul mondo che da lui è conosciuto, integralmente, un io collettivo che si rivolge perentorio al dio con la voce della preghiera.
Colpendo i nemici con le sue frecce, Rudra è catartico, la sua comparsa annienta ciò che ottundeva la percezione della sua presenza, purifica la vista e la coscienza del teurgo. La sua presenza terribile perciò è benedetta, perché sebbene ancora si palesi come irato, Manyu, l’ira di dio, la radice etimologica di “mente” e di “”uomo”, o la natura irascibile dei platonici, ha in sé il potere primario e preliminare alla realizzazione spirituale, la purificazione dei sensi e dei desideri, la consacrazione, dunque, del soggetto a una dimensione di verità e di distacco. Dopo questa catarsi, che è già presenza di Dio, benché ombrosa, lo spirito può avanzare verso il Dio e il Dio discendere nella coscienza del teurgo come un esercito, prendendo possesso di tutto ciò che trova sulla sua strada, ogni singolo soffio della psiche e della persona, del suo mondo interno ed esterno, grossolano e sottile.
Affinché l’esperienza di Dio superi la
dimensione duale, l’invocazione del Dio lo deve incitare, con la
parola ispirata dal terrore e dal desiderio, affinché si impossessi
del devoto, come un cacciatore dell’animale, come un esercito che
occupa un territorio, come il profumo della primavera che fa
sbocciare i fiori, e infine il solve et coagula che integra ogni
soffio e ogni dualità nell’Unità col divino. Queste sono alcune
delle formule con cui il Grande Dio è invocato.
Tutta la natura
è presente alla grande evocazione, e così ogni singola figura
umana, tutto è evocato nella presenza di Rudra, tutto scorre nel
grande corteo che segue l’incedere del Signore, insieme agli gli
esseri invisibili, i disincarnati e gli spiriti, gli antenati e gli
astri, gli elementari, i geni e i demoni. L’universo può essere
visto in questa rutilante scena collettiva, come una grande allegoria
del sacro, che segna il centro del cosmo. E’ il mondo descritto
minuziosamente e nelle sue contraddizioni. E’ altresì la potenza
interna che si raccoglie attorno al suo unico centro radiante, quando
i sensi, il pensiero, le pulsioni, i sogni e le paure, le esperienze
e le ombre, i trionfi e le sconfitte, i soffi ascendenti e quelli
discendenti, che popolano e agitano la coscienza umana, sono
rievocati nell’affresco universale, chiamati col loro nome archetipo
e magico a riunirsi per inchinarsi a Rudra, il Signore.
L’unificazione che è lo scopo dello yoga, la presenza di Dio nella
coscienza umana, è descritta con le immagini causali del mondo e del
cosmo: non l’io individuale, ma la persona universale si manifesta
nella coscienza illuminata dalla presenza di Dio, che prende possesso
del territorio vivente, con tutto il cosmo, non ostile, ma
pacificato, integrato nell’Unità: l’unità è Shiva, il Bene
supremo.
A questo profondo inchino (il ripetuto Namah), questo consegnarsi integralmente al Dio oscuro che si palesa, fa eco la discesa delle benedizioni, che segue con una litania parallela e successiva, Chamakam: tutto ciò che il Signore reca con sé, dunque sia mio, ma meglio ancora si deve intendere “sia con me.” Siano con me le vacche, i figli, e la prosperità; ma con me, a favore della mia coscienza del Bene e del Vero, agiscano anche le espressioni che la vita mi offre oscure e misteriose. Tutto ciò che era stato raccolto attorno al Dio, col Namakam, e che a Lui era stato offerto, che provenisse dall’ombra o dalla luce, lo yogi lo può trasformare in Nettare, benedizione che ricade copiosa sulla sua vita delle persone e degli animali, le piante e ogni forma vivente che a lui si avvicina. Così la coscienza dello Yogi diventa il Pozzo del Nettare e fluisce senza ostacoli in parole di benedizione e prosperità, per il Bene nel mondo. E’ il segno della Conversione, del rovesciamento, che dal terrore e dal pericolo egoistico, confluisce in inversione di tendenza, prima raccogliendosi verso l’alto, ordinatamente, attorno al Signore, in unità universale, poi ritornando ad essere distintamente sotto il segno della prosperità e della benevolenza, in discesa torrentizia, fluiviale e pluviale.
Shiva è dio delle Foreste, è un eremita che abita solitario la foresta, ma della foresta è lo spirito cosmico nascosto, l’anima mundi, la natura che ama il segreto. Egli è la coscienza che presiede alle infinite forme di vita che abitano il sistema, che regge ogni singola foglia, ogni infinitesimale essere vivente e non vivente, così come il clima, che la foresta è in grado di determinare con il suo stesso respiro, procurandosi da sé le piogge e la temperatura che mantengono in vita il suo delicato equilibrio, singolare e plurale. Così il Signore regola l’ambiente e metaforicamente le piogge, il nutrimento che ogni essere necessita e ogni vita rimette in circolo dopo la morte, ma allo stesso tempo lo tiene in sé, mai separato, sempre al sicuro, sempre nella coerenza interna di una sola coscienza che sta dirigendo la tragica e sorprendente coesione del tutto.
Nel più piccolo degli esseri animati della foresta, vediamo manifestarsi comportamento eroici, sublimi, di abnegazione e di sacrificio, che manifestano, con quello che chiamiamo istinto, la profondità della presenza dello spirito, che tutti pervade, come sono innumerevoli le forme, spesso straordinariamente creative, che ogni specie e sottospecie ha disegnato sulla propria figura per distinguersi, moltiplicarsi e sopravvivere, in una esuberanza creativa, che non è limitata alla sola necessità, ma sembra raccontare un vero e proprio processo di individuazione, sistemico e creativo, una singolare esperienza di sé, che va oltre la necessità, è eccedenza, grazia, sacrificio: è spirituale. Ogni forma è dunque “con me”, ogni forma riconduce all’Essere, per la forma e per il sacrificio che in ciascuna si esprime con la vicenda vivente, ogni singola creatura è “con me”, non separata da Sé. Eccedenza che è la Grazia, che liberamente si riversa nel mondo, oltre la legge di necessità, il merito o la colpa, presenza del Dio è la sua creatività preponderante, il suo sacrificare, creare mantenere e riassorbire, incondizionatamente, senza consumarsi.
Questa visione, posta a fondamento, ha perciò avuto una lunga storia filosofica. Le Upanishad sono il capitolo finale della stessa sequenza che strappa la visione mistica al cerchio della pratica rituale e liturgica per consegnare la sua piena realizzazione al piano contemplativo, noetico. La Svetasvatara Upanishad, che si trova anch’essa nello Yajur Veda, prosegue nello stesso solco delle litanie di Rudra, portandone le conseguenze metafisiche, distese con lo sguardo a volo planato sulla realtà che Namakam e Chamakam avevano enunciato come un inventario minuzioso. E’ lo sguardo dell’aquila che Prajapati ha faticosamente ricostruito con l’altare del Fuoco, svincolato dai calcoli dei mille e otto mattoni, che qui hanno perduto ogni materialità, infine benedetti e insufflati di formule e inni, arsi nel fuoco, sono uniti nel volo del corpo ricostituito del Creatore e la sua visione che abbraccia tutto l’esistente dall’alto, dal punto di vista dello spirito ritrovato, librato al di sopra di tutto, eterno e immortale, dominatore, Rudra, Shiva, Hara, Isha, il Mahadeva.
In questi e in altri testi, che si riallacciano al Mistero supremo e al suo Nome, insieme ai Mille Nomi e alle formule sacrificali, ci immergeremo tra le potenti braccia del Signore, che stringe con l’estasi:
Sabato 13 e Domenica 14 Marzo – in occasione di Shivaratri.
Con orario (indicativo) 9-12 e 15-18.
Iscrizione alle due giornate solo 100 euro (ma ogni donazione superiore è benaccetta e benedetta) da versare con Paypal al momento dell’iscrizione.
Collegamento via Skype, su chat dedicata agli iscritti. Il link per unirsi alla videoconferenza viene comunicato il giorno prima dell’inizio.
Iscrizioni:
Facebook & Messenger: Beatrice Udai Nath
Mail: beatrice.udainath@gmail.com
Web: www.satsang.it