Brhadaranyaka Upanishad. Dalla Creazione alla Liberazione.

La religione Vedica fonda la stessa esistenza del cosmo nel sacrificio compiuto da Prajapati all’origine e, da quello, nel rituale che ogni capofamiglia eredita e deve svolgere incessantemente, nei riti stabiliti per ogni giorno, all’alba mezzodì e tramonto, e in quelli indicati poi per i passaggi del sole, per le lunazioni, per le eclissi e per i giorni festivi veri e propri; sono poi osservati i digiuni, i pellegrinaggi, i sacrifici, e infine i sacramenti che segnano le diverse fasi della vita, e le pubbliche celebrazioni; inoltre tutti i rituali di commemorazione dei defunti e in loro favore. La concezione sacerdotale dell’essere umano stabilisce un profondo senso di interdipendenza tra uomini, cosmo e dei, e la sua funzione si propaga attraverso il passaggio generazionale di un debito individuale, verso gli antenati e la tradizione famigliare, che tra gli obblighi religiosi sancisce allo stesso modo anche il matrimonio e la procreazione, per assicurare la continuità dell’opera rituale e della stirpe. Sacrificio, matrimonio e procreazione sono i compiti con cui si assicurano la vita sulla terra, la prosperità della comunità umana, e sui quali si proietta l’immortalità del singolo attraverso la continuità delle generazioni, e in essa lo scopo esistenziale dell’individuo.
Si crede che il sacrificio offerto al fuoco garantisca le piogge, ritorni agli uomini come fertilità dei campi e delle bestie, e delle famiglie, ricambi l’offerta con il ritorno dell’abbondanza. Karma, opere, è arrivato a noi proprio nella sua accezione più cruda, che ne è alla base: debito, Rna. Questo concetto è il presupposto che regge la vita sociale del mondo vedico. La vita è il tentativo di saldare quattro debiti, che gravano su di lui dalla nascita: verso gli dei, verso i Rsi, verso gli antenati, verso gli uomini. Questo debito si può saldare, nell’ordine, con il sacrificio, con lo studio dei veda, procreando, offrendo ospitalità. La loro origine, ci mostrerà la Br Up, è una sola: il debito del vivente con la Morte, che all’inizio, grazie al suo sacrificio, lo risparmia…

La Morte, all’inizio della cosmogonia della Br Up, si con-fonde completamente con la figura del creatore stesso, o proto-genitore, Prajapati. Quello che nei Brahmana è detto Prajapati, il padre dei viventi, in questo capitolo finale della sceinza vedica non è mai nominato (sebbene chi legge deve già conoscere che è di lui che si parla), ma la sua figura si stempera nella doppia natura del corpo sacrificale, il cavallo e la Morte, che lo circonda, che lo permea in ogni direzione. Come l’uno l’ombra dell’altro. A fare da protagonista delle gesta del misterioso essere primordiale non c’è nessuno, si sospetta che sia la stessa morte, il cavallo morto, a fare ogni cosa. Qualcuno, se c’è, l’altro è il pensiero che ne scaturisce, la luminescenza (Arka), l’inno, il canto di questo primo giorno del mondo, che ne resta la coscienza immortale, imperitura: l’immortalità. Questo, e non il mondo nato dalla morte e destinato ad essa, è ciò che il saggio deve perseguire.

L’universo religioso così espresso nella parte rituale dei Veda, detta perciò Karma Kanda (o delle opere): qui è la legge, il debito, le infinite varianti della prima sillaba che innerva il cosmo con la sua propagazione rituale e mitica, il rituale che ne prosegue l’opera instancabile, ma anche insaziabile. Nell’uso comune, si è soliti indicare come Veda il Karma Kanda e come Vedanta il Jnana Kanda. Jnana, gosis, è la conoscenza che è l’occhio non visto di tutta la vicenda cosmica e rituale. Quell’osservatore non visto, quella conoscenza che permette di tenere ogni cosa nell’ordine costituito, ordinatore interno, ma perciò del tutto libero dalla legge che impera nel mondo e che sottopone ogni cosa alla morte, alla legge e al debito karmico. Quell’Essere, pienezza e beatitudine, libero da ogni legame e attributo, colui che sa, e perciò è lo spettatore non visto di tutto il piano tragico e escatologico, quello è ciò che tutti gli dei e i sacrifici adombrano e rappresentano, colui che tutti seguono senza vederlo, è il Brahman… la realtà, il conoscitore, la coscienza unica e immortale del cosmo. Questo è il luogo che non è toccato da colpa o merito, non dal debito, non dalla morte, non dalla paura o dalla mancanza. Con spirito paoliniano si direbbe, la legge e la Grazia: Karma kanda e Jnana kanda.

1. Solo il nulla vi era in origine: L’Universo era avviluppato dalla morte e dalla fame, poiché fame è morte. Egli creò la mente, dicendo tra sé : “Che io possa avere una mente”. Quindi trascorse qualche tempo in adorazione, e in virtù di tale adorazione si produssero le acque. Allora Egli comprese che adorando aveva conseguito l’acqua. Chi conosce l’origine dello splendore (Arka), comprende come conseguire l’acqua e diviene partecipe di felicità.
2. L’acqua era splendore. La schiuma delle acque si consolidò e diventò la terra. E quando anche la terra fu creata, Egli si sentì stanco. Mentre conosceva la stanchezza e il turbamento, la sua essenza e la sua gloria emersero all’esterno. E questo fu il Fuoco.
3. Poi si scisse in tre parti, una il fuoco, una il sole, una il vento; questo è il triforme spirito vitale (Prana). L’oriente fu il suo capo, i venti che provengono da quella zona furono le zampe anteriori; l’occidente fu la sua coda; i venti che soffiano da occidente furono le zampe posteriori; il settentrione e il mezzogiorno furono i suoi fianchi, il cielo fu la schiena, l’atmosfera il suo ventre, la terra il suo petto. In tal forma Egli sostenne le acque e chi questo conosce trova, ovunque vada, il suo sostegno.
4. Poi sentì sentì il desiderio di un altro sé stesso. Per mezzo del principio vitale si accoppiò con la Parola, Egli che è Morte e a cui la Fame è inerente. Seme fu l’anno; non c’era anno prima di allora. Egli lo trattenne per un tempo pari all’anno e trascorso questo tempo lo lasciò uscire. Contro il neonato (la Morte) spalancò le fauci. E il bambino gridò:”Bhan!” ed ebbe così origine la loquela.
5. Poi pensò tra sé “Se lo uccido, ridurrò il mio cibo a troppo poco”. Per mezzo del principio vitale generò con la parola quanto questo universo contiene: il Rgveda, lo Yajurveda, il Samaveda, gli inni, i sacrifici, gli uomini e gli animali. E quanto aveva creato cominciò a divorare. Per il fatto che tutto divora [ad], Aditi [la Madre] porta il suo nome. Di ogni cosa creata fruisce chi sa questa origine del nome Aditi; tutto si fa cibo per lui. 6. Poi desiderò compiere un altro e più solenne sacrificio. Egli era stanco e turbato e perciò la sua fiducia e le sue forze venivano a mancare, poiché i sensi sono la fiducia e la forza di un essere. Quando i sensi si dipartirono il suo corpo iniziò a crescere, e così la mente che nel corpo era posta.
7. Egli formulò: “Diventi atto al sacrificio il mio stesso corpo! Che io possa incarnarmi attraverso di esso”. Siccome il corpo cresceva (Asvat) prese il nome di Asva (cavallo). E siccome crescendo divenne adatto al sacrificio, il sacrificio del cavallo prese il nome di Asvamedha. Colui che conosce questo, conosce il significato del sacrificio del cavallo. Immaginando sé stesso come cavallo, decise di lasciarlo libero e si mise ad osservare. Dopo un anno lo sacrificò a sé stesso e gli altri animali li destinò agli Dei. Perciò si sacrifica a Prajapati ciò che è dedicato a tutti gli dei. Quel sole che lassù arde è il Sacrificio, l’anno è il suo corpo, il fuoco sono i raggi e questi mondi il suo corpo. Questo quanto all’Arka [radianza] e all’ Asvamedha [sacrificio] che sono poi una sola divinità, Mrtyu [la Morte]. Chi sa questo trionfa della morte successiva, la morte non ha più presa su di lui, la morte diventa parte del suo essere. Ed egli diviene una sola cosa con queste divinità.

BRHADARANYAKA UPANISHAD
PRIMO ADHYAYA – SECONDO BRAHAMANA

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