Bhagavad Gita. La quintessenza dell’istruzione spirituale.

“Bhagavad Gita. La quintessenza dell’istruzione spirituale.”

Questo libro è detto essere la sintesi perfetta di tutta la dottrina spirituale dei Veda e delle Upanishad. Il testo, trasmesso come una conversazione di Krishna con Arjuna sul campo di battaglia, non è inteso a stabilire un culto particolare, non è destinato a una casta particolare, sebbene sia enunciato da Krishna e dedicato a incitare un guerriero. Quello che si svela, davanti alla fatalità della morte, dell’uccidere o dell’essere uccisi, è la domanda di fondo della coscienza, davanti al dubbio essenziale, tra la vita e la morte, tra l’egoismo e il richiamo al dovere. Dunque la prima risposta, e la sola risposta, che il divino avatara può rivolgere all’uomo Arjuna, riguarda l’universalità della Realtà, come presenza divina stessa, come Dio stesso. E con essa, l’universalità del Dharma, del dovere e destino di ciascun vivente, secondo la propria natura, inclinazione e vocazione.
Le domande di Arjuna sono avvolte nella morale e nel senso di appartenenza vincolante per un principe indiano dell’epoca, come lo sarebbero ancora oggi. Sono i legami di sangue, di stima e di riconoscenza, la lealtà, il senso di responsabilità di fronte alla legge umana, morale, e alle conseguenze di una carneficina, che avrebbe decimato la parte migliore di una intera classe regnante.
La risposta di Krishna riguarda la più profonda e metafisica delle dottrine hindu: c’è un solo essere che abita tutte le creature, quello è L’Essere è indistruttibile, eterno e senza distinzioni; soltanto i corpi materiali che assume sono separati e soggetti alla distruzione. Non nasce, non muore, è eterno, originale, non ebbe mai inizio e non avrà mai fine. Non muore quando il corpo muore. Da questa metafisica di fondo, discende tutto il pensiero del Vedanta. Colui che comprende la verità, sa che Dio è presente, eterno e immutabile, in tutte le creature, dagli Dei fino al filo d’erba. E colui che realizza questa verità riconosce dio nel suo stesso mondo presente, senza mediazioni, né luoghi o tempi ulteriori, qui e ora, in se stesso e in tutti gli altri, allo stesso modo, nello stesso momento cosciente e senziente. Questi, realizza “tu sei Quello”, dove il Tu si stempera infinitamente in tutto. Da questo punto di vista, il problema della morte non deve affliggere il saggio, che non vede morire che le forme transitorie, assunte dall’anima divina, in un continuo movimento di progressione spontanea, come dall’infanzia alla giovinezza, all’età adulta, ecc., un cambiamento che non tocca la natura della persona, ma la sua forma esteriore, il corpo e le relazioni, mentre uguale a se stesso resta il testimone, la consapevolezza che attraversa tutti gli stadi del divenire, come costante, essere.
Il dharma, il dovere secondo la legge universale, consiste nell’eseguire il compito associato alla propria natura e vocazione, senza occuparsi di alcun merito, ricompensa o demerito. Poiché ogni forma, la sua natura e le sue finalità sono stabilite in un percorso che va oltre la forma attuale, di cui siamo chiamati a svolgere il segmento assegnato in questo spazio-tempo. Qualsiasi attaccamento al frutto è illusorio, perché non ci appartiene, accadendo in un percorso molto più vasto. Anche le dottrine religiose e morali, (i veda) in questo senso sono fonte di illusione, se nutrono attaccamento al merito, quindi all’io individuale soggetto a gradi di merito e di demerito. Il Fine ultimo dei Veda, la conoscenza spirituale, Jnana, sta ai dettati religiosi come l’oceano al pozzo. Solo chi conosce l’identità dell’anima con l’assoluto ha compiuto tutti i doveri prescritti dalle norme religiose, ed è il saggio, il realizzato. Dunque, rinuncia ai frutti delle azioni, ai meriti e ai demeriti, al desiderio di una nascita superiore. Questo attaccamento all’io, non è del saggio. Il saggio concentra la sua attenzione sull’unico esistente, al di là dell’illusione, del divenire, e comprende come ogni azione e condizione siano solo a Lui destinati, e a niente altro. Quando compie il Dharma, il suo dovere, non vede alcuna azione, poiché sta agendo nel distacco dell’io. Non essendoci qualcuno che è agente o fruitore del merito e del demerito delle azioni, l’azione è non-azione, ricade nell’ambito dell’essere. Il Dharma da azione umana, si fa condizione devozionale, mistica.
[Brano tratto dal seminario di Udai Nath]

Tu hai diritto di compiere i tuoi doveri prescritti, ma non di godere dei frutti dell’azione. Non credere mai di essere la causa delle conseguenze dell’azione, e non cercare mai di sfuggire al tuo dovere.
Compi il tuo dovere con fermezza, o Arjuna, senza attaccamento al successo o al fallimento. Questa equanimità si chiama yoga.
O Dhananjaya, liberati da tutte le attività interessate, esercitando il tuo servizio per devozione, e prendi rifugio in esso. Avari sono coloro che vogliono godere dei frutti del proprio lavoro.
L’uomo impegnato nello yoga della conoscenza si libera dalle conseguenze buone o cattive dell’azione in questa stessa vita. Sforzati dunque di apprendere lo yoga, l’arte dell’agire.
Il saggio impegnato nella disciplina dello yoga rinuncia, in questo mondo, ai frutti delle sue azioni. Si libera così dal ciclo di nascite e morti e raggiunge lo stato di coscienza che è al di là di ogni sofferenza.
Quando la tua intelligenza avrà attraversato la densa foresta dell’illusione, tutto ciò che hai ascoltato e tutto ciò che potrai ancora ascoltare ti sarà indifferente.
Quando la tua mente non si lascerà più distrarre dal linguaggio fiorito delle scritture, sarai situato nella realizzazione spirituale, in piena Unità con l’Essere.

[Bhagavad Gita 1, 47-53]

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