Decostruire Patanjali.
La storia ci ha consegnato un numero di tecniche e di ideologie, che tutte si coniugano più o meno coerentemente con il titolo di Yoga. Così che il praticante di oggi si trova a disporre di un eccesso di stimoli e di ipotesi, che infine comportano un forte rischio di dispersione e quindi di non arrivare a cogliere quella dimensione profonda di cui voleva seguire il richiamo e il mistero.
Il fatto è che come diceva già Platone, molti agitano il tirso, ma pochi sono i Bacchi. Molti hanno trovato, fin dall’antichità, un argomento interessante o un’ideologia da usare arbitrariamente, anche con il beneficio della buona fede, nelle dottrine spirituali. Piuttosto l’autenticità, che le parole possono solo disporre per enigmi, invece, è finita sepolta tra il tecnicismo e la compartimentalizzazione delle idee.
Dividere, ad esempio, dualità e non dualità, come sistemi antagonisti ideologicamente, significa avere nulla compreso dello stato di coscienza e delle finalità che si propongono, soprattutto nella non dualità.
Di questo processo di secolarizzazione, in fine, è esemplare la dottrina dello Yoga già al tempo di Patanjali. Animato dalla nobile intenzione di fornire una raccolta ordinata dei principi e delle istruzioni basilari che poteva avere raccolto dalle numerose scuole e dai maestri del suo tempo, diventa una personalità fittizia e una scuola, un modello a se stante, avulso dal cosmo di esperienza a cui egli stesso ammette di avere attinto. Se Patanjali fosse solo un erudito grammatico che voleva compilare una raccolta di aforismi, come usava all’epoca, o uno Yogi che esprimeva il frutto del suo esercizio, oppure, come vuole una leggenda fosse fratello spirituale di Shankara, discepoli entrambi di Govinda, e quindi discendenti dalla linea di Gaudapada, tutto questo è rimasto sepolto nella Storia. C’è un processo di colonizzazione delle idee, che manipola i contenuti riempiendo quelle che alla nostra scarsa conoscenza sembrano lacune. C’è appropriazione culturale, nella ricerca di strumenti che apportino benefici al nostro stile di vita, senza considerare le contraddizioni. A nostra discolpa, già nei secoli successivi alla loro diffusione, gli Aforismi (Sutra) erano stati oggetto di una sorta di “bramanizzazione” da parte dei più celebri commentatori, quelli che ne forgiarono una dottrina coerente con la postura e le finalità di un certo modello sociale, appropriandosi di fatto di un sapere esperienziale, popolare e sotterraneo, grazie all’opera di Patanjali.
Gli aforismi di Patanjali sono ricchi dell’esperienza diffusa della mistica indiana e parlano ai mistici dello “stato dell’arte” dell’esperienza religiosa, attingendo sia a quella colta e iniziatica, come a quella popolare, ancora fortemente radicata nella magia, nello sciamanesimo e nello straordinario. Di molte espressioni locali, spontanee e coerenti con il loro tempo, i Sutra estraggono il Seme, al netto dalle questioni più esoteriche, quelle che devono passare da Guru a Discepolo segretamente, e espongono di esso il processo di fondo che era condiviso da una larga porzione del variegato mondo religioso, magico e mistico dell’India. Prendiamo per esempio un passaggio cardine, tra gli otto passi prescritti da Patanjali, il Dhyana. Lo possiamo considerare un elemento fondante dello “Yoga di Patanjali”, e quindi saremmo stupiti di scoprire che un gran numero di preghiere ed invocazioni religiose, di matrice tantrica, è preceduto da un passaggio letterario che si chiama appunto “Dhyana”, la visualizzazione guidata della forma della divinità, e la sua contemplazione estatica. Solo a questo punto il praticante, quando si sarà avvicinato con la concentrazione più profonda all’immagine seminale, sarà pronto a esprimere il Suono, il canto sacro, dell’invocazione vera e propria.
A questo livello, se non ci adagiamo a leggere questi passaggi con sueprficialità, sappiamo che la contemplazione delle Divinità, costruita pazientemente nel proprio cuore dal praticante, corrisponde a una profonda concentrazione dei sensi e della mente, che insieme ad altre pratiche preliminari di purificazione più o meno simbolica, comporta quel progressivo processo di Teosi, di “farsi” dello spirito a immagine della divinità, che produce gli effetti e gli stati di coscienza che il sapere religioso più profondo ha trasmesso segretamente. Non è semplicemente la magia popolare e la sollecitazione oscura dei sensi che tanto hanno affascinato il pruriginoso occidente, il Tantra nella sua forma migliore conserva la competenza teurgica dell’antichità, ne trasmette il potere evocativo e trasformativo. Che Patanjali accenna e desidera ripulire delle derive del “potere per il potere”, mostrando le potenzialità verticali e psicologiche. Il suo magistero è rivolto a costruire la percezione del Purusha, l’esperienza dell’Essere Assoluto.
La contemplazione di Dio, Ishwara, la
fede che Patanjali raccomanda di coltivare ai praticanti, sono state
oggetto di concettualizzazioni, Patanjali era forse Vaishnava, o era
Shivaita, era quindi dualista, monista, o monista qualificato, e così
via. Così si considera come adesione ideologica la coerenza al
pensiero del Samkya, la dottrina che postula la differenziazione tra
un Purusha, un essente puro e distaccato, dalla Natura Naturans,
detta Prakriti. Occorre anche qui decostruire il potere ideologico di
questa “adesione”. Samkya, per altro, significa “razionale”,
o “enumerabile”, ciò che è visibile a tutti e che tutti possono
cogliere con la ragione. Samkya è una scuola, un preciso modello di
filosofia certamente, ma è anche l’idea prevalente sostanzialmente
in tutto il mondo antico. Su un’idea non dissimile di Natura e di Dio
si muovono il pensiero aristotelico, l’Alchimia e l’Ermetismo
occidentale. La devozione popolare incontra questo modello e cerca la
sua composizione nelle innumerevoli coppie divine che popolano il
pantheon politeista, il cui significato profondo, la dynamis che
tende i due poli, e la sua potenza creatrice, è il contenuto del
Tantra.
Questo modello sembra informare quindi l’esoterismo, come
lo Yoga. La Ragione che giuda il Filosofo della Natura, e lo Yogi, è
separare l’Essenza oscurata dai processi naturali, estrarre l’Oro
filosofale, rettificando la composizione mista e sempre mutevole
degli elementi.
La psicologia e l’etica dello Yoga
Il lavoro alchemico dello Yoga è necessariamente spirituale, quindi primariamente assorto a osservare e rettificare le tendenze naturali del profondo. Lo yoga osserva la psiche come un crogiolo delle forze naturali, dove si mescolano gli elementi costitutivi dell’esperienza del mondo in risultanti esperienze psichiche. Questi fenomeni perdono ogni oggettività, letti con la lente dello Yoga, per esprimersi come equilibri tra le forze originarie, prive di volontà e identità propria, che vanno a costituire l’esperienza e il bagaglio psicologico del soggetto.
Quindi lo yogi può modificare attivamente la qualità delle proprie esperienze, manifestando la propria natura di osservatore dell’esperienza, diverso dalla natura dell’esperienza stessa. La psicologia antica che informa queste osservazioni può essere applicata senza dubbio al nostro tempo, nell’osservazione delle modalità con cui la mente risolve l’esperienza del mondo.
L’osservazione delle qualità dell’esperienza e la loro possibile soluzione nella chiarificazione rendono la mente più efficace nelle sue scelte e nelle risposte. La qualità spirituale dell’esperienza prende gradualmente il posto della percezione mondana e passiva, e poi di quella reattiva ed egocentrata. Il mondo parla una lingua di colori, qualità, essenze, sostanze sottili, sublimazioni, lo yogi impara la riconoscere questi segni e ne comprende la sfida e l’enigma. La mente stessa è fenomeno di questa composizione, il suo riflesso soggettivo, strumento e processo.
Le qualità etiche che si raccomandano non sono inarrivabili. Gli Yama e Nyama, cose da fare e da non fare, sono elucidazioni su un modello di comportamento accessibile e concreto, che propone la possibile via di libertà dai vincoli del mondo, in modo che l’esperienza non sia soffocata e predeterminata da legami (karmici) che convogliano risposte automatiche, ripetitive e, infine, errate. Il distacco dall’automatismo del desiderio e della soddisfazione immediata, dalla corruzione banale dell’ottenere riconoscimento, doni, profitto, dal possesso, dall’avidità, sono precursori della possibilità di stabilire la mente nel Vuoto, e mantenerla stabilmente, nella sua capacità spirituale di autosostentarsi, priva di bisogni e di alterità. E’ la più rivoluzionaria delle inversioni di tendenza, che spezza alla radice una schiavitù convenzionale, che si manifesta nel dolore, fatta di pulsioni, conformismo e adattamenti quasi mai felici. La lucidità che ne discende non è solo il puro distacco (Kaivalya), che rimane un paradigma quasi retorico, ma un processo di introversione virtuosa, che dà vita a un elenco di possibilità inusuali quanto desiderate, amicizia, prosperità, cessazione delle ostilità, compassione, guarigione, risoluzione degli enigmi e visione di cose nascoste agli occhi di tutti. Diventare dunque quell’osservatore non è un atto di esclusione dal mondo, ma una possibilità naturale della coscienza di recuperare la sua natura onniveggente e compassionevole, profonda e presente. La conoscenza dell’esistente è insomma definita dalla conoscenza di sé, dal dominio sui fattori che altrimenti oscurano la potenza della mente. Risolte le pastoie con cui le dinamiche delle esperienze hanno trattenuto l’espressione in circoli viziosi e chiusi, è la potenza interna ad aprirsi su uno scenario potenzialmente illimitato, che non soffre i confini dell’ego e della necessità. Patanjali sembra comunque comprendere il grande salto che auspica, ma volerlo attenuare, il suo Yogi non si esalta, non si espone in mirabolanti espressioni di potenza psichica, sebbene ne possieda la possibilità e l’abbia sperimentata. Ogni espressione di questa potenza espone alla caduta, disperde un seme spirituale che è stato finalmente conosciuto e illuminato di luce propria.
Se fino a questo punto lo Yoga Sutra non differisce troppo da altre idee e scuole tradizionali, la realtà del potere che descrive avrà, come è naturale, diverse direzioni in cui convergere. Ma nella differenziazione delle scuole, esiste un’esperienza comune e coerente che fa da sfondo alla possibilità di elevare l’esperienza alla dimensione spirituale e quindi, il Samadhi, con cui Patanjali apre il libro, lo scopo e il sostrato di ciò che le dinamiche psichiche potranno veicolare, resta il luogo che colloca tutte le esperienze dello Yoga in un orizzonte comune del Dharma indiano. La possibilità di entrare nel sostrato più profondo e quieto della mente, dove la potenza è inalterata, mai emessa, mai dispersa, mai oscurata. Questo sostrato comune, che è appunto il tema di apertura, che resta al fondo del testo e dell’esperienza, è l’elemento qualificante della Sadhana dello Yoga in assoluto, e storicamente quel “dato di fatto” che di per sé supera le questioni teoriche di dualismo o non dualismo, di appartenenza e di scuola. Qualsiasi formula e utilizzo della Sadhana dello Yoga, ha per scopo e per fondamento la conoscenza diretta del Samadhi e la sua profonda e stabile contemplazione.
Il Seme e La Meditazione
Il concetto di potenza è legato a stretto giro con l’esercizio della concentrazione, come in qualsiasi arte sacra o profana. La concentrazione è potere, efficacia. Convertire le potenze fisiche e mentali in un solo punto è la maestria di sé, la capacità di sostenere questo esercizio fermamente, fino alla sua massima naturalezza è avere vinto la morte. Secondo il pensiero antico la morte accade perché la potenza contenuta nella vita, in forma di fluidi che custodiscono il seme, si disperde, decade, infine evapora e il corpo si prosciuga dalla vita stessa che lo animava. La vita trascorre trasmettendosi in nuovi corpi, sia con la prosecuzione della stirpe, che con la trasmigrazione, che prede il posto, come un’immagine astratta, dello stesso processo. Il tutto accade per la gente comune senza che si abbia alcuna percezione del suo accadere, senza alcun controllo sulle pulsioni di vita e di morte che trasportano il prezioso Seme divino tra i corpi addormentati… C’è una vasta tradizione esoterica che attinge a questa sapienza naturale e popolare e opera a trasformare la pulsione animale in potenza pura, inarticolata, disponibile e inalterata. Patanjali non fa questa operazione. Ma conosce il processo. Seme è l’elemento con cui lo Yogi si dispone alla concentrazione e raggiunge la prima esperienza del Samadhi, con Seme. Occorre trattenere questo Seme, ammonisce. Finchè il Seme è contenuto nella concentrazione della mente, ancora tutti i processi vitali, quelli propri della veglia, si svolgono naturalmente, sebbene lo Yogi sia nella contemplazione continua dell’oggetto che ha prescelto a rappresentare l’anima immortale. Questo non può essere che una rappresentazione, che conterrà psichicamente la potenza sufficiente a sostenere l’esercizio e la sua realizzazione.
Il solo Seme che anima la vita è Ishvara, Dio stesso, che è il Seme supremo della meditazione. La sua impronta sonora, la Sillaba Sacra, Om, ne è la forma sensibile più vicina alla sua essenza imperscrutabile, e perciò con La Sillaba si Mediti il Supremo.
Questa fenomenologia della Meditazione, della sua estensione fino alle pieghe più profonde del vivente e dell’esistente, è un pensiero, e soprattutto una pratica, universali dello spirito indiano. La cui potenza resta insuperata e perciò le sue espressioni derivate, secondarie, fioriscono permettendo una vasta fioritura di strumenti operativi, per lo yogi, per il tantrico, per il devoto, che permettono esperienze di vario grado, ma sempre dirette e profonde, di avvicinamento meditativo alla forma sonora e seminale, cioè divina, del mondo. L’Anima Mundi ha una lingua sonora, che si assottiglia, dai molti fonemi che designano le forme del mondo e le sue potenze, fino al suono puro del Principio universale…
All’inizio era il Nulla, dicono i testi sacri. Questo è Parabrahman, Parasamvit, Sat Cit Ananda, privo di attributi, di forma e di dualità. Al di là dell’essere e del non essere, esisteva, come tutto ciò che esiste (e non esiste).
Poiché esso esisteva, deteneva in sé, in quanto esistente, un’energia, o un potenziale, che nella parola Brahman è implicito: espandersi. Brahman deriva dalla radice Brh, espandersi.
Brahman è uno e immobile, come Shiva è assiso solo, prima della creazione, ma detiene in sé il potere di creare ogni cosa, di espandersi in infinito. Essendo l’unico e il solo, è già infinito, non potendoci essere altro a stabilire il suo limite: è potenziale espansione infinita nell’immobilità dell’essere che contiene in sé ogni possibile. Questa potenza vibra. Le definizioni che distinguono il suo stato inerte e i diversi stati vibrazionali e manifesti, sono solo distinzioni teoriche. Questa dynamis è inerente al Brahamn stesso, è inerente il suo stato naturale. La vibrazione è per sua natura suono. Dunque Brahman “canta”, suona. E’ un suono ben preciso, unico, che sarà origine del vibrare in tutto: AUM. Qui siamo allo stadio supremo dell’energia, in cui Shakti, la sua potenza, è Para Shakti: nulla è creato, solo la vibrazione emana, senza differenziarsi in forma, dal Brahman assoluto, che li contiene entrambi.
Nel momento in cui si postula la vibrazione si stabilisce un elemento di emissione. In qualche modo, una dualità. C’è un soggetto e c’è il suono che emette.
L’emissione sonora è effettivamente emissione luminosa, frequenza, che implica l’attivarsi di una coscienza, dove coscienza è luce: la possibilità di distinguere un oggetto è metaforicamente “luce”, poiché un suono è distintivo, un suono può guidare, orientare, nominare, evocare, suscitare sentimenti, espressioni, forme primordiali di oggetti e riflessi, differenziazione, nomi, proprietà.
La creazione è un evento sonoro.
“Dal Supremo Signore, pieno di essere, coscienza e beatitudine, dotato di Kala (contenitore del tempo, o di tutte le suddivisioni potenziali), emerse l’energia sonora. Da essa scaturì il Nada (suono) e dal Nada il Bindu, che è manifestazione dell’energia suprema, che a sua volta si divise in tre parti: bindu- seme, nada – suono e bija -fonema.” [in “La ghirlanda delle lettere” di Arthur Avalon, citato come “testo tantrico” non specificato.]
Dunque dall’energia sonora che vibra di moto proprio dal Brahman supremo si manifesta un terzo elemento, il Bindu, il Seme.
Bindu significa goccia, è il trasudare di questa emanazione divina, luogo seminale del mondo, la scintilla che scaturisce dalla frizione dei poli dell’onda sonora, l’emissione che, come nel concepimento, fuoriesce come il seme del mondo vivente. Nada e Bindu, vibrazione e espressione, non possono mai essere oggettivamente separati. Il Bindu porta nella materia, che si addenserà per raffreddamento, il seme della coscienza divina. Questo, si situerà nel Muladhara, come a dire, nel fondo cieco del corpo vivente, di cui dirigerà la formazione, l’evoluzione e i movimenti della coscienza individuata, restando invisibile. L’essere vivente avrà forma e distinzione, sarà e si percepirà cosciente, ma, a meno di intraprendere il percorso yogico con successo, mai sarà in grado di cogliere il seme dell’Immortale che è all’origine del suo vivere individuale. Quel Bindu, perciò, è il Tutto, contenuto inconsapevolmente nella singola parte.
Bindu e Nada
sono perciò le forme metafisiche – impersonali – di Shiva e
Shakti.
Il suono Nada, che è onda, si eclissa o si addensa, nel
bindu, particella. E’ dell’onda stessa il dinamismo che permette
questa trasformazione. Nella sillaba Om il Bindu è rappresentato
graficamente dal punto, anusvara, in cui il suono termina nella
nasalizzazione. Ad esso corrisponde lo stato che la Mandukya Up
definisce il Quarto, Turiya, l’osservatore immobile, in cui il suono
dell’Om ritorna allo stato senza suono e senza forma, all’assoluto.
Nello Yoga questo stato è detto Unmana, oltre la mente, o
Niranjana, senza macchia, puro. Questo stato, che si chiamerà anche
Samadi, Nirvana, Mukti, nelle sue espressioni realizzative, è lo
scopo perseguito dagli Yogi, quando il Bindu è emendato delle
condizioni contingenti della sua espressione mentale (e quindi sonora
e creatrice) per rifulgere come unità e pienezza, nel suo assoluto
potenziale intatto.
L’Amore o la vera Devozione
La ragione di tutto questo lavoro, la cui esperienza ci spinge a superare il raziocinio e le posizioni intellettuali, per ascoltare un livello di presenza che è normalmente inudibile, è che si intuisce l’attrazione, la nostalgia, l’impellenza di dare al Cuore lo spazio a cui aspira. Poiché esso è il luogo da cui le nostre emozioni e la nostra natura profonda dirigono la nostra vita e la mente, la felicità e la disperazione, l’appagamento, la realizzazione o la mortificazione di ogni speranza. Tutto si emana dal cuore, nessun argomento dell’intelletto, nessuna salute del corpo, potranno mai risolvere il richiamo del cuore.
La mente, per lo Yoga, è un organo come un altro, sottoposto alla tirannia dei Guna e delle forze naturali, il cui funzionamento è spiegabile e soprattutto deve essere controllato. Il controllo o soppressione (nirodha) delle fluttuazioni o meglio delle operazioni automatiche e meramente fisiche della mente, è la vera rinuncia, ci dicono i mistici.
Se la vita comune è confrontarsi a giochi fatti, sempre con il passato, con le forze che si manifestano come Fato, e che rappresentano ciò che morendo lasciamo alle nostre spalle, che rimpiangiamo inutilmente e ripetiamo inutilmente, il cuore, da cui tutto questo prende vita ed è regolato, viene educato in questa battaglia a reprimere e costringersi in uno spazio angusto e regolato, da cui perde la visione e la capacità di estendersi oltre i confini domestici e delle costruzioni sociali in cui è permesso, e convertito a riprodurre lo stesso Fato di cui poi si percepirà vittima. La mistica ha avuto il compito definitivo di emancipare il cuore da queste strettoie che sono vincolate al desiderio e alla regolazione sociale del desiderio. Il cuore mistico non si degrada alla soddisfazione dell’impulso, non chiama amore la normatività delle funzioni sociali, la sua tensione è insoddisfatta dal mondo, il suo desiderio si arrischia all’assalto del cielo.
Perciò i mistici dichiarano senza eccezioni che la felicità per loro è poca cosa, in confronto a quello a cui aspirano. Il cuore non ha fondo, non può essere saziato, e riempito di oggetti di godimento non è felice, solo soffocato e inascoltato. La dimensione del profondo non è il chiuso, ma l’aperto infinito, per raggiungere il quale si passa per un isolamento che il cuore pretende, per essere ascoltato, per poter estendere le sue membra al cosmo intero.
Così l’ultimo passaggio dello Yoga Sutra ci parla di isolamento (kaivalya), quello stato con cui il soggetto riconosce l’unicità di sé, la sua universalità e non dualità. L’esperienza della condizione unificata, di unità, non si può definire per espressioni convenzionali, perciò il dualismo implicito, di una differenza, di uno stato altro e irriducibile a qualsiasi stato derivato o secondario è un paradigma scolastico, formale. Il processo a cui si ispira discende dall’immaginario dell’oltremondo, quando l’anima può essere ancora tratta in inganno dalla nascita e ricadere nel Samsara o scoprirsi indipendente e distaccata dalle correnti discendenti e libera di elevarsi secondo il proprio status, alla condizione numinosa, siderale, a cui appartiene, senza incontrare ostacoli. Il viaggio nel profondo della conoscenza dello yoga, o dell’autoconoscenza, è assimilabile al viaggio dell’anima nell’aldilà, è condizione postuma, di chi muore al mondo.
Solo un amore profondo e illimitato, incondizionato, e che ha bruciato nel suo ardore ogni residuo karmico, ogni attrazione e repulsione, ogni giudizio, ogni orgoglio, solo quell’ardore ha la potenza di fuoco per fare dell’anima una stella, ricongiungendola la destino che l’ha generata e guidata segretamente, lungo una distanza di milioni di anni. Occorre che quel cuore mistico arda, è il fuoco degli yogi, il fuoco sacro, il canto meridiano dell’Udgita, la propulsione della potenza in grado di garantire l’immortalità. La condizione di eterna pace contemplativa, di consonanza con il cosmo e il tempo nella sua estensione circolare e simultanea: Dio. Nessuna strada o sentiero arde con la stessa potenza dell’amore, nessuna salita richiede più leggerezza e più avventura e pericolo, incognite e intuizione. Perciò furono poeti, i mistici, capaci di elevare con la voce del cuore il cuore di molti, allietarne le feste, benedire il mondo, e sollevarne le pene e i lutti. Così il seme ricade non disperso, ma fecondo, albero e scala, riparo, porta e sentiero. Non c’è amore più grande di quello di colui che apre il sentiero del cuore a coloro che cercano la verità.
Nel Seminario del 18-19 giugno 2022 leggeremo e commenteremo brani dagli Yoga Sutra di Patanjali, per convertire ai testi più antichi dello yoga, tra cui lo Yoga Bija di Gorakhnath, il Goraksha Sataka e altri, il Kaulajnana Nirnaya di Macchendranath, e infine il Narada Bhakti Sutra. Desidero che questa escursione nei mondi di questi grandi mistici sia un’esperienza fluida e informale, in cui il testo è solo un passaggio perché il cuore abbia la Sua parola…
Inizio Sabato 18.06 alle ore 10.00, fino alle 18.30. Riprendiamo alle 10.00 di domenica 19.00 per terminare (o incominciare…) in serata. Per informazioni, utilizzare il modulo dei contatti.
Om Shiv Goraksh! Adesh Adesh!