ADVAITA SADHANA. LA FELICITA’ DEL DISCERNIMENTO SPIRITUALE.

ADVAITA SADHANA. LA FELICITA’ DEL DISCERNIMENTO SPIRITUALE.
[SEMINARI 2022: “MEDITAZIONE E CONTEMPLAZIONE”]
DOMENICA 20 FEBBRAIO 2022: ADVAITA SADHANA. IL VIVEKACHUDAMANI DI SHANKARA.

Spesso accantonato come mero esercizio intellettuale. Troppo spesso adoperato come sterile esercizio intellettuale. Evitato come un severo e anacronistico modello di rinuncia alla vita. Spesso equivocato come una metafisica oggettiva, e perciò disatteso come strumento conoscitivo pratico…. Il Vivekachudamani, da testo molto elogiato, forse perché questi equivoci hanno avuto i loro periodi di moda, diventa ai giorni nostri un testo deprecato, disconosciuto, poco o nulla praticato.

Questo testo, e il suo autore con esso, propongono invece una meditazione attiva e consapevole per arrivare a riconoscere la realtà che chiamiamo vita per ciò che veramente è, per riconoscerci in essa, nella pienezza contemplativa che tutto restituisce. Nel distacco intellettuale e nella postura morale del Discernimento Regale, così come lo potremmo tradurre, con un leggero scarto semantico, o Coronamento del Giudizio, si disegna una postura psicologica e intellettuale capace di oltrepassare le convenzioni e luogo comune, le schiavitù della mente e le limitazioni che isolano l’individualità in una separazione fittizia e conflittuale. Si chiede e si insegna perciò un profondo esame delle idee e delle tendenze innate, come dei modelli sociali che depredano il “gioiello” interiore della coscienza.

Un lavoro che è compiuto in sé, non sussidiario ad altri, che forma la coscienza del Conoscitore (Jnani), colui che può sciogliere ogni nodo e svettare al di là di ogni dubbio, procedendo con un sicuro metodo di conoscenza, capace di smontare e disinnescare le falsità ideologiche e conoscitive. Perché il conoscitore deve cogliere sempre e ovunque la Realtà in Sé, questo è il vero enigma, di cui tutti gli strumenti indiretti sono inadeguati e inconsistenti. Non si può entrare nel percorso spirituale senza questa precisa attenzione discriminante, diretta ai propri mezzi conoscitivi, e la necessaria tensione intellettuale, si andrebbe per una fitta foresta di falsità e di illusioni. Solo chi ha compreso questo metodo, la sua eleganza, il suo incedere sicuro e incorrotto, ha la postura dello Yogi (Yogarudha).

Per entrare nella verità e nelle possibilità che le vie contemplative, della meditazione e dello yoga, propongono ai loro praticanti, è necessario che la “metafisica” del Vedanta non duale, cioè questa esperienza della realtà, sia compresa come esperienza pratica, attiva e volitiva, poiché è la vera ragione e la conoscenza che tutte le forme di pratica spirituale hanno teso a realizzare.

Quello che Shankara sviluppa a partire dalla tradizione delle Upanishad è la possibilità dell’Esperienza diretta, senza mediazioni, della realtà dell’Atman, come unica Realtà della condizione vivente, individuale come universale. Le sue strategie sono asciutte e senza compromessi, poiché è della Scrittura fondante, il Dharma, che ogni strumento sia infine un mezzo necessario ma non sufficiente, poiché l’Atman, il cuore vivo e segreto dell’essere, non può essere realizzato che per la sua stessa presenza innata ed eterna, in quanto tale, auto-evidente, causa e regolatore invisibile di tutto, fondamento di tutto, dei sensi, dei loro oggetti, come delle idee, dei mondi come della loro dissoluzione, e di tutti gli stati di coscienza con cui essi sono collegati. Perciò in nessuna delle espressioni secondarie e derivate potrà trovarsi il fondamento della conoscenza del Sé.

Occorre che, secondo il dettato delle Upanishad, queste sovrapposizioni, che sostengono la percezione comune e l’agire convenzionale, siano distinte dalla conoscenza dell’Essere, come particolari, fondate su assunti specifici e relativi, mentre per la conoscenza dell’Essere non possono che essere considerate inattuali. Questa conoscenza non si deve pensare fondata sul mondo, come una scienza “positiva”, o una metafisica, e tantomeno un’ideologia, antica o moderna, perché è solo sulla verità della propria esperienza che si può condurre la ricerca del Sé. Le condizioni secondarie, sovrapposte, velanti, non appartengono al Sè; il nostro spontaneo anelito alla Liberazione è già nel riconoscimento che esse ostruiscono e separano la coscienza dalla possibilità di riconoscersi nell’Universale e nell’Assoluto, perché ogni definizione e particolarizzazione ha scavato un solco più doloroso tra l’io e l’altro. Questa separazione rovina l’autenticità dell’amore, l’evoluzione, il riconoscimento della propria vocazione e ogni autentica realizzazione. Sebbene il Sé non sia vincolato a nessuna di queste specifiche realizzazioni individuali, la sua mancanza, il Dio Absconditus, che non risponde alla nostra chiamata, è la nescienza dell’Essere che ci estranea a noi stessi. E’ nel profondo nella nostra stessa nascosta natura, velata dalla disarticolazione della mente nel discorso-mondo, che che dobbiamo cercarlo.

L’Opera di Shankara non è una condanna morale dei sensi, delle percezioni o del mondo. L’ascesi di cui parla non ha un significato di contrizione e di penitenza, ma di direzione intellettuale: la conoscenza non può basarsi su mezzi illusori, che dipendano dai sensi o dalle parole o dalle suggestioni, o dalle elaborazioni della fantasia e dai desideri. Cercare qualcosa di autentico inseguendo il miraggio di un desiderio, per quanto condiviso dai più e legittimo, o attenendosi ai limiti e alle contraddizioni delle esperienze di ogni giorno, non porterà a conoscere quel Vero e Reale che si intende per la conoscenza del Sé. Esso si situa al di là di ogni attribuzione di nome e forma, di valore e di esperienza, di insegnamento e di acquisizione, intellettuale, sociale o personale: è Quello che resta identico a se stesso, invariato e inaffetto da tutto quello che l’esperienza ordinaria ha costruito come narrazione della nostra vita, nel senso dell’io, e delle conoscenze mondane. Piuttosto, la Sadhana che deve intraprendere il filosofo contemplativo, secondo questa istruzione, è un passaggio a ritroso, a invertire il percorso della mente, della sua inesauribile narrazione, scardinare i nessi logici, formali e affettivi, con cui il senso dell’Io si è formulato a partire dalle attribuzioni di senso e di principio che hanno condizionato la mente, fino a oscurarne la natura del Sé.

Eppure il Sè è conosciuto da tutti, è il Sole che brilla in cielo, incondizionato dalla nostra percezione e dalla nostre faccende mortali, visibile in ogni momento. Per il mondo antico la filosofia realizzativa consisteva nell’elevarsi alla condizione del Sole imperituro, quello che non sorge e non tramonta, il. Il luogo senza tempo e che segna il tempo, senza esserne modificato, una SOLI-tudine che disarticola gli elementi continuativi del discorso, come fenomeni della ripetizione, l’eterno ritorno, l’oceano della nascita e della morte, che è la condizione illusoria, la Maya senza inizio né fine, né reale né irreale, che tutti gli esseri separa in individualità spazzate dal destino, per perderle come una totalità indistinta con la morte.

Se perciò si pensa comunemente che la rinuncia ai sensi e ai desideri sia una condanna della vita, in realtà è con l’avidità dei sensi e la tracotanza della mente che consumiamo stoltamente la vita.

Nel mito puranico Sati, che incarna la Madre Divina, si getta suicida nel fuoco sacrificale eretto dal superbo Daksha, e perde la sua vita. Il suo gesto è compiuto per amore di Shiva, escluso dagli invitati, che accorrerà a recuperarne il corpo ormai carbonizzato. In questa storia puranica, che si spiega in ogni direzione, eternamente, al di sopra delle nostre vicende, è il sentimento di tutta la tragicità della condizione terrena, cieca al bisogno della stessa Natura, la nostra stessa natura, non diversa dall’Atman, di avere con sé l’amore potente e puro dello Yogi, e l’anelito disperato a fuggire invece dalla oppressione e dallo sfruttamento della percezione comune, dettata dall’ego.

Il consumo di energie, cibo e risorse ha ridotto il pianeta all’autodistruzione, a desertificarsi nel giro dei prossimi decenni, un attimo appena nel tempo universale, come fosse già qui. “Il sannyasin dovrebbe vivere dei frutti che cadono spontaneamente dagli alberi”, disse una volta un eminente tra essi, Sri Chandrasekarendra, “così non ci sarebbe né sovrappopolazione, né fame nel mondo”, né alcuno dei meccanismi oppressivi che schiacciano la natura e la coscienza umana all’unisono, e nessuna sofferenza animale. Un’iperbole, certamente. Ma la condizione della rinuncia, della vita contemplativa, è la condizione invece naturale e integrata. L’abuso dei sensi è abuso di sé e della natura che i sensi credono di amare, solo per desiderio di consumare. Desiderio è consumazione, feroce e famelica, insaziabile, e infine incoscienza e rovina. E’ l’annientamento che gli Asura operano nel mondo, secondo il paradigma di molti miti, dove gli Dei, i più grandi tra essi, sono chiamati in soccorso contro il pericolo e la follia del mondo. Perciò la disciplina spirituale, il discernimento e il sentimento di indipendenza, e infine di Sacralità dell’Essere, sono effettivamente la chiave d’amore che da sé, si espande a tutto. Come la coscienza che dall’individuato si espande all’universale, ciò che è anima di tutti: l’Atman. Che è Brahman, il Supremo, il Dio che avevamo immaginato separato, antropomorfo o duale, infine si svela nel cuore della personalità che abbia operato con il discernimento, fino a comprendere la natura intrinseca del creato: il mondo non è diverso dal Brahman, perché non si potrebbe avere apparenza (del mondo) se essa non poggiasse su un fondamento… Esso è, eterno, luminoso, al di là di ogni mutamento, sempre reale.

Il seminario sul Vivekacudamani di Shankaracharya si svolgerà
domenica 20 Febbraio 2022, dalle ore 9 alle 12, e poi dalle 15 alle 18 circa, solo su Skype.
Per le iscrizioni e informazioni rivolgersi direttamente a:
Beatrice.udainath@gmail.com – Facebook: Beatrice Udai Nath.
E’ richiesta una quota di partecipazione.

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