Atman. Conoscenza e Realizzazione del Sé nei Brahmana e nelle Upanishad.

SEMINARI 2022: “MEDITAZIONE E CONTEMPLAZIONE”
PRIMO APPUNTAMENTO: 22-23 GENNAIO 2022


Egli è il Veggente non veduto, l’Uditore non udito, il Pensatore impensabile, il Conoscitore inconoscibile.
Non vi è altro veggente che Lui, non vi è altro uditore che Lui, non altro pensatore che Lui, non altro conoscitore che Lui.
Egli è l’Ordinatore interno, il tuo stesso Sé immortale. (Bradharanyaka Upanishad)

Madre e padre di tutte le forme, linfa di tutti i corpi, respiro di tutti i soffi, coscienza di ogni pensiero, l’Atman pervade ogni respiro, ogni pensiero, ogni parola, ogni vivente.

Con la fatica di esuli in patria, per re-imparare la nostra lingua madre, dopo un lungo esilio, dobbiamo riprendere ad ascoltare la Scrittura che si dice conservi il primo e immortale splendore, quello che le acque avevano riflesso della luminosità del Creatore il primo giorno del mondo, diventando la sua Voce, la sua radianza, raccogliendo la prima meditazione del Padre degli Esseri.

Le Scritture discendono, come ogni creatura, conservando traccia dello splendore originario, mescolato insieme al rumore del mondo; perciò occorre risalire le Scritture alla sorgente, fino a dove irradia la potenza originaria scaturita da Sé, da dove continua a riempire le nostre vene di pulsazioni, e le nadi di energia, dove ancora illumina la coscienza anche quando la ragione sembra errare e parlare la lingua della paura e dell’oppressione. Anche mentre siamo perduti nella selva oscura, la coscienza sta parlando per simboli e allegorie, sta indicando una strada e avvertendo dei pericoli, sta tirando a Sé, instancabilmente, perché tutto ciò che accade è sempre espressione del Sé e solo in Sè si riconosce, si comprende e si risolve.

Il Sè, la presenza invisibile, è inalterato dalle circostanze, e ad ogni esperienza e ad ogni espressione fornisce sostanza, forma ed espressione. Ad ogni forma ed espressione infine porta la soluzione, il riassorbimento e la dissoluzione finale. La forma modellata dall’esperienza, coperta dalla polvere dell’attaccamento, torna ad essere pura coscienza e radiosità, creazione, magia, spirito. Del Sé si dice che è Beato, sempre sereno e in pienezza: poiché non esiste mai, in sonno o in veglia, nella chiarezza o nella follia, che quella coscienza smetta di essere presente e creativa, immaginifica, espressiva e plastica, creatrice di tutti i mondi che in terra e in cielo, in veglia e in sogno la nostra coscienza può sperimentare. Insegna perciò la Brahdaranyaka Upanishad che nel Sogno si vive la condizione di Dio, poiché la coscienza soltanto crea i mondi che il sognatore sperimenta, proprio nel momento stesso che la sua azione onirica li snoda, con tutto il sistema coerente e complesso, i mondi impliciti che il paesaggio sottintende, è il passo del sognatore che crea il terreno su cui posa il piede nel sogno. E quando attraverso queste esperienze ha compreso come l’anima patisca e gioisca dei mondi, dei meriti e dei demeriti, in questa vita e nell’altra, la condizione del Creatore è sua, e la legge del Karma appare nella sua semplice e coerente disponibilità. Fluidi sono i mondi tra le mani del loro creatore. Labili i confini tra l’io e il tu, tra specie, individui e condizioni, infine tra la vita e la morte, e tra la morte e l’immortalità. Ogni cosa è Spirito e spirito soltanto, ogni cosa è respiro dell’Atman. Sebbene sia l’atman soltanto a tenere il sole e i pianeti ancorati alle orbite, cioè le redini del destino, sebbene sia l’Atman a tenere i mondi dei vivi e dei morti distinti e separati, poiché suoi sono il tempo e lo spazio, e quindi tutte le distinzioni, per l’Atman non vi è limite, ostacolo o contrapposizione. Quell’Atman perciò si deve realizzare per comprendere davvero la propria natura e la natura delle esperienze; ciò che rende amabile e bello il vivere e cancella il timore della morte e, con esso, l’inseparabile esperienza del dolore, che deve essere sanato e compreso, tutto questo è l’Atman, la cui conoscenza, perciò, si dice comprenda tutte le conoscenze…

Gli antichi, sebbene vivessero società relativamente più semplici e strettamente organizzate, compresero che la mente umana facilmente si frammenta e si disperde, disconoscendo la propria autentica natura, che la sua straordinaria creatività, che produce una rete così fitta di oggetti e di relazioni, proprio per un paradosso, che deve per forza essere il paradosso della Creazione, è portata a soccombere, spezzata dallo sforzo della sua potenza, dalla proliferazione della sua eccezionalità. Questa sostanziale differenza con il resto del creato, che invece resta sempre presente a se stesso e coerente con la propria natura, doveva accomunare la stirpe dei creatori dello stesso tragico destino, che doveva essere accaduto una prima volta, all’inizio dei tempi, a Dio stesso, che forse non era ancora Dio, forse era soltanto il Primo Esistente, il primo essere vivente, il Padre di tutti gli esseri. Questa spaccatura doveva provenire dall’origine, essere all’origine stessa di coloro che ne recavano il tragico destino. Da quel Primo Essere che nella creazione si era frammentato, come la coscienza si disperde nelle percezioni e nelle relazioni, quell’unità originaria doveva essere ricostruita e ripristinate ed elevata, perché dell’inaccessibile Essere, presente ovunque e dato in nessun luogo, si potesse conoscere il Dio. Questo è stato e rimane il grande paradosso e il Mistero che informava il sacrificio Vedico e le sue profonde meditazioni rituali. La fede e la Scrittura, oltre alla pratica fedele ad essa, erano l’elemento igneo, il Sacrificio, che per mezzo del Fuoco, cioè Ardore, e della Parola, cioè Verità, avrebbe ridato un’anima unitaria e realizzata all’Essere che era così restituito a Dio.

Perciò i primi rituali dei Veda non sono ancora la devozione popolare che diluirà la presenza in cielo come in terra nel dualismo. Al rituale concepito secondo i termini vedici, descritti nei Brahmana, toccava “ricostruire” il Dio stesso, ricomporlo a partire dai mattoni del creato, manifestarne lo spirito che nelle creature aveva infuso con il suo seme, e che brilla di luce propria, come il fuoco, di cui gli uomini avevano, tra tutte le creature, la padronanza, poiché con le Scritture ne conservavano la memoria e la Voce. La ricerca di Dio è un atto creativo e contro-creativo. Il Dio ritorna al Cielo, salendo nella forma del grande Uccello, dall’altare di mattoni, su cui arde il Fuoco sacro, Agni, a cui il Dio stesso intimò l’ordine e il compito di ricomporlo, per essere suo Figlio e Padre. Tale è il potere della conoscenza sacrificale, la teurgia sacra dei Veda, che diventerà la conoscenza dell’Atman-Braman:

Egli è Padre e Figlio: in quanto ha emesso Agni, è il padre di Agni; in quanto Agni l’ha ricomposto, Agni è suo padre. (…) Essi sono insieme il Padre e il Figlio, Prajapati e Agni, Agni e Prajapati.(…)” (Satapatha Brahmana)

Estrarre dunque lo spirito ardente e primordiale dalla creatura che ne conserva il seme invisibile; dare forma, voce, direzione e vigore all’Invisibile che è ancora racchiuso nella materia e nella forma. Perciò la stessa creazione si dà per essere divorata e consumata, ma nel sacrificio non viene intaccata né distrutta, piuttosto la creazione partecipa del Sacrificio, e da esso è benedetta e moltiplicata, e ciò che era oppresso da scarsità, fame e morte, si trasforma in abbondanza, esubero, dono incondizionato: Grazia.

Così che, contemplando questa grande allegoria della Verità, si trova la Liberazione: l’Atman non è che la liberazione del Dio dalla nescienza di sé, per cui la mente non era più in grado di riconoscerlo. Tratto dal proprio cuore, dalla sapienza che si tramanda di padre in figlio, sapienza d’amore e di morte, e dalla propria operosa volontà di obbedire alle scrittura del Dharma, esso è Atman, la coscienza che si illumina. Alto, infinito, senza limiti, universale, solo, senza morte, senza fame, liberato, è il Brahman stesso, l’Assoluto. Brahman e Atman si dispongono l’uno dall’altro, poiché sono lo stesso Spirito, la stessa presenza divina che libererà se stessa per mezzo di se stessa soltanto.

Quanto a questo, dicono: ‘Per quale scopo è costruito questo (altare del) fuoco? Quando sarà diventato un uccello, lui (Agni) mi porterà in cielo!’ così dicono alcuni; ma non si pensi così; poiché assumendo quella forma, i soffi vitali divennero Prajàpati; assumendo quella forma, Prajàpati creò gli dei; assumendo quella forma, gli dèi divennero immortali e in tal modo divennero i soffi vitali: e ciò che Prajàpati e gli Dei divennero, in realtà egli diventa allo stesso modo. (Satapatha Brhamana)

Tutte le forme assunte, nel corso dei millenni, da questa antica volontà di onorare il debito con il Creatore, di ritornare alla pura espressione della integrità originaria e della coscienza suprema, tutte queste forme di azione e conoscenza sono Meditazione. Ogni fuoco sacrificale è fondamento e immagine del Tapasya, della fatica dell’uomo e della sua operosità, che si fa meditazione e trasformazione. Ogni gesto rituale è dato, in realtà, solo come Meditazione. La logica che guida le definizioni e i concetti della Scrittura è l’Enigma. Poiché la Natura profonda e universale, come diceva il nostro Eraclito, “ama nascondersi”, il suo linguaggio deve inseguirla nella selva dei simboli, nella logica oscura delle figure geroglifiche del rituale, che non rivelano, ma accennano, come oracoli, come il linguaggio dei sogni, elementi di una creatività originaria, quella che manifesta il mondo e lo riassorbe, le sue sillabe seminali, le sue note vibrate all’origine. Perciò le Scritture non possono limitarsi a una lettura letterale, sebbene siano segni, fatti, gesti e oggetti ben definiti. Ciascuno di essi è un piccolo paradosso, un enigma da decifrare con il cuore e la pratica, un sasso informe, una pietra di inciampo per lo stolto, una pietra filosofale per il sapiente, un seme senza volto lasciato dal progenitore per permettere alla mente di concepire l’enigma della creazione stessa, e superare la sua apparente dualità. Meditazione è sostare nello spazio stretto dell’Enigma, dove non c’è luogo per altro, non per la ragione ordinaria, non per un oggetto profano, ma questo momento d’Essere è in realtà uno spazio senza tempo, dove il Dharma si compie, il Karma si risolve, e con esso il Debito, e ogni debito, è saldato, perciò il tempo si riassorbe nell’eterno.

A differenza delle tesi spiritualiste successive, che arrivano fino ai giorni nostri, la dimensione della ricerca di Sé, in antico, è il Sacro, cioè la dimensione della festa, o del sacrificio, del momento collettivo in cui una comunità agisce come un solo corpo, si ritrova nel medesimo spirito. Questo elemento, che come vedremo ha i suoi limiti strutturali, è però ormai una lacuna che difficilmente riusciamo a colmare, soprattutto dove l’individualismo moderno ha proprio assunto paradossalmente il maggiore tecnicismo. Dalla dimensione rituale, che raccoglie in sé tutti gli elementi di una società e di un mondo, per “contarli”, come un algoritmo, come un inventario ordinato, e portarli insieme all’elevazione, alla dimensione di assoluto, la posizione individualista dapprima è un fenomeno di liberazione dalle strette maglie della religio e dei suoi riti codificati, una necessaria via più diretta e povera, più radicale. Infine si inabissa però nella singolarità, incomunicabile, in una separazione che si fa drammatica e narcisistica, e riassume in sé anche alcuni elementi di conformismo e di tecnicizzazione esasperata, nonché l’odiosa l’affettazione erudita, e non ultimo la dispersione in una abbordabile e terrena felicità individuale, che è solo una caricatura della beatitudine divina.

Perciò si deve ripartire dal sentimento di queste origini, proprio quando la nostra era dell’individualismo sta volgendo al suo epilogo più tragico, segnato dalla pandemia, l’isolamento, l’incertezza e la paura, dove la povertà delle relazioni umane, che a stento trovavano un limitato spazio tra le incombenze del nostro tempo, si manifesta in tutta la sua fragilità. Un dialogo diretto con Dio, come molti hanno immaginato di poter costruire, è possibile solo con una apertura del cuore. Come ci si può aprire a Dio quando il cuore è chiuso nella presunzione?

Alla dimensione del Sè, si riconosce ancora oggi, si accede sbarazzandosi dell’ego, delle determinazioni contingenti dell’io. Questa necessità superiore, imprescindibile, di spoliazione e di liberazione, se non è soddisfatta, può perfino sfociare in comportamenti e pensieri autodistruttivi, nella depressione e nelle patologie mentali che mimano la necessità di destrutturare le gabbie dell’identità, processo rischioso e perfino devastante (talvolta, comunque, proficuo) nella solitudine, semplice e rotondo nell’Amore: che è raro, è tutt’altro che edonistico, automatico e istintuale. L’Amore è sapienza, lavoro su di sé, competenza altissima, sacrificio. E’ quello che resta sempre da imparare. Perciò la ricerca di Sé, paradossalmente, si comprese presto, deve ritrovare la comunità sacrificale perduta, che diventa la comunità sapiente dei discepoli, della famiglia del Guru, specchio delle ramificazioni profonde del cuore, che permette di riconoscere in sé il cosmo e le sue leggi, il corpo universale del Dio che è manifesto in questa forma, in questo mondo, in questa realtà – di cui l’Atman è lo spirito unitario e immortale.

L’idea di Atman, inteso come l’anima individuale, concettualmente, ha un lungo sviluppo e una gestazione corale, l’India lavora per millenni creando scuole, tecniche ed esperienze che riprendono il vecchio mandato della ricostruzione del Dio perduto, portandolo nella coscienza individuale. Pratica e Scrittura sacra si intrecciano, sviluppano una lunga meditazione su diversi piani dell’esistente, dal dono rituale, al sacrificio, alla contemplazione filosofica vera e propria, fino a passaggi di stato del corpo-mente che restano esemplari. Sono tracce che non devono restarci estranee, a cui ritornare quando la coscienza vacilla, alle prese con una idealizzazione che ci proviene dall’istruzione religiosa popolare e dalla sua inevitabile decadenza. Lo Spirito è solerte e instancabile lavoro su di sé, questo è certamente il primo tema da recuperare dalle vecchie Scritture. Solo a questo prezzo, la Grazia si paleserà da Sé, come preesistente, sempre favorevole, e solo la Grazia ha agito in ogni fase in cui credevamo di essere gli agenti: ma questo è già l’Atman che svela la Sua realtà primordiale, che proiettavamo sul futuro. Non è una ricompensa della fatica, ma l’amore profuso nell’opera senza tornaconto, l’amore incondizionato, a svelarsi, a prodursi davanti a noi, illuminato dalla nostra devozione. Tutto il Sacrificio, la sua laboriosa operazione, la meditazione e il Suo frutto, non erano che l’Atman che radiosamente si dava a noi.

L’Atman, come il Dio vedico primordiale, va concepito e ricostruito con perizia e onestà intellettuale, con ardore e verità. In una fase rituale del periodo vedico, di straordinaria potenza meditativa e metafisica, il sacrificatore forgia, letteralmente, un corpo “di canti”, un corpo sapienziale eterno e immortale, che si definisce a partire dalla recitazione di Mantra ben precisi, che sono il corpo manifesto del Brahman, ciascuno con il compito di manifestare organi e arti del corpo nuovo. La perizia di questa operazione, la conoscenza esatta delle formule e del loro effetto sottile, è la meditazione e il tapasya richiesti a realizzare quel Sè immortale, che a partire da questo modello originario si dice che è da “realizzare”, cioè fare sì che da ideale si manifesti nella sua piena realtà. Quel corpo immortale è l’Atman, costituito della Sapienza del Brahman, cioè, la conoscenza del Brahman è l’Atman, l’Atman è realizzazione del Brahman.


“Diventato un essere fatto di strofe e di melodie dei Veda, un essere fatto di immortalità,
colui che così sapendo sacrifica alle divinità, arriva fino alle divinità” (Aitareya Brhamana)

La meditazione del corpo immortale -Atman – è perciò lo strumento privilegiato, mentre lo scopo della Scrittura, rispetto alla Realtà realizzata, ovviamente decade, e questo fenomeno che diremmo di obsolescenza del mezzo rispetto al fine, diventa anche argomento di un certo modello di pensiero, che fiorirà dopo il declino della cultura vedica, che “ha compreso” che l’Atman non è dato da questo o quel particolare mantra, ma dalla coscienza dell’Atman stesso, che è in sé tutto il Brahman che si deve sapere. L’Atman creato dai Canti Vedici va a risiedere al di là del tempo, in un cielo immobile, esso stesso immobile, non più soggetto ad alcun mutamento, e per tale ragione, poiché la sua Realizzazione lo colloca al di sopra del tempo e del mutamento, Esso non ha mai avuto nascita, perché non ricade nella dimensione del tempo, non ha morte. Piuttosto il tempo, la nascita, la morte e gli altri fenomeni che il vivente percepisce sono riflessi del Sacrificio originario, della sua stessa Realizzazione. L’Atman diventa anche perciò l’unico e l’eterno esistente, l’unico ed eterno Sé, a prescindere dal momento della sua realizzazione sul piano dell’esperienza ordinaria. Dal momento in cui è, la sua esistenza si situa nel Sempre, da cui emana, dove tutto è noto, previsto e sensato, e in cui tutto si riassorbe. Ecco che perciò la Realizzazione dell’Atman, libera, salva la vita, risana il dolore, rende felici e stabili: nell’Atman nessuna contraddizione è possibile, neppure in termini logici e temporali.

Non vi è nascita né dissoluzione, nessuno che sia in schiavitù,
nessuno che aspiri alla liberazione, né qualcuno che sia liberato.
Questa è la verità suprema. (Gaudapada Mandukya Karika)

Accanto alla lunga fase rituale, che dura millenni, si medita non più la costruzione del Dio, ma la sua Realtà effettiva, riconosciuta dall’iniziato nel proprio essere. Le Upanishad, secondo la visione storica, segnano il passaggio dal periodo del ritualismo alla filosofia. Ma è anche possibile che le due espressioni si sviluppino invece parallelamente, l’una come fase preparatoria, in cui l’iniziato compiva i gesti e i riti sacri, che gli mostrabvano l’”oggetto” di Meditazione, e solo poi quindi la Contemplazione vera e propria, che non ammetteva supporti minori, visualizzazioni sovrapposte e fittizie, ma doveva dimostrare la perfetta conoscenza di quella Realizzazione in termini non più rituali, ma di ragionamento, statura morale, psicologia e modello di vita. Non ultimo, al Liberazione doveva garantire tutte le benedizioni che la condizione divina incarnata era nella posizione di elargire al mondo. Dove ci sia un’anima realizzata, non ci sarà errore, conflitto, paura, bisogno, a patto che lo si riconosca e se ne segua l’insegnamento.

Dunque vediamo che le Upanishad, oltre a sintetizzare mirabilmente lo statuto filosofico dell’Atman, rappresentano anche vivaci spaccati di scuola, di dibattito pubblico e privato, e le peregrinazioni tra i mondi visibili e invisibili che l’anima compie nella ricognizione del Sé. Ma sono soprattutto esposizione della logica, differente e paradossale per il mondo, che già nella primordiale Mandukya Upanishad scardina ogni raziocinio ordinario, negando ogni applicabilità, all’Atman, dei principi di Causalità, Nascita, Percezione. Solo nella conoscenza dell’Atman e in riferimento a una piena comprensione dell’Atman si può leggere ad esempio, la Mandukya Karika di Gaudapada, che è il commento non duale della Mandukya Up., e comprenderne il senso. Così come le vaste dissertazioni di Yājñavalkya, autore della Brhadaranyaka Up., il saggio realizzato che come un Socrate indiano frequentava le corti e i convivi ingaggiando dialoghi filosofici, ci offrono la visione non retorica, ma palpitante di ispirazione, autenticità, di senso e di significato reale e concreto, della dimensione dell’Atman, come fondamento ontologico del Sè e del mondo. Non di meno, queste parole antiche sono ricche di poesia e di raffinata concezione estetica e sono date per ritornare a memoria, per essere realizzate mano a mano nell’esperienza di sé, con la maturazione dell’ascolto interiore, della meditazione.


Quindi si proceda a conoscere il Sé” esordisce il testo cardinale del Vedanta, il Brahmasutra di Vyasa, commentato da Shankara e da tutti i filosofi che hanno voluto provarsi in questo Enigma supremo, conoscere il Sé. E’ interessante che il libro incominci con un “quindi”, una locuzione condizionale, che sembra riaprire il discorso da un punto precedentemente lasciato in sospeso. Con una certa unanimità si crede che Vyasa abbia inteso che si debba procedere alla conoscenza del Sé dopo che si sono completate tutte le esperienze rituali che fissavano nella mente dell’iniziato la condizione dell’Atman in termini liturgici e scritturali. Quando dunque l’iniziato avesse appreso con diligenza le Scritture e fatto esperienza dei riti che ne sono il corpo vivente – allora, quindi – è nella posizione di poter intraprendere la conoscenza in Sé delle esperienze che ha maturato, portando quell’intellegibile, come l’avrebbe chiamato Plotino, nella sua stessa esperienza dell’essere. Quel Sè che è descritto nelle Upanishad, quindi, si deve conoscere. Dirà Shankara, a commento di queste parole, che perciò né i riti né le Scritture possono definirsi causa della conoscenza del Sé, solo la conoscenza diretta dell’Atman è ciò che permette la realizzazione dell’Atman, nessun mezzo esterno può essere sufficiente, sebbene, in varia misura, sia propedeutico e perciò talvolta necessario.

La Meditazione dell’Atman come Sé, e non come astrazione, è perciò la contemplazione filosofica, che le Upanishad sviluppano come stato successivo, ulteriore a quello religioso, che del rituale e della scrittura vedica liturgica non fa più gran conto, basandosi invece solo delle parole che direttamente sono state esposte come esperienza diretta di sé dai conoscitori dell’Atman, che l’hanno conosciuto in Sé. La letteratura vedica già conosceva la diade tra lo scritto e la parola cantata. L’inno scritto, composto di sillabe, è la Terra, dice la Chandogya Upanishad, l’ardore con cui il sacerdote intona il canto dell’inno è il Fuoco, quella potenza che perciò può dare alla scrittura vita e veridicità, è l’esperienza di chi la pronuncia con totale ardore, ardendo in essa, a proprio nome, davanti al fuoco sacro, facendosi fuoco sacro essa stessa e lui con essa. E questo passaggio, che è il più vedico dei passi delle upanishad, rappresenta perciò la chiave che scioglie dall’osservanza stretta del rituale e dalle preclusioni che imponeva, per promuovere l’esperienza diretta, della propria “voce” e del proprio “canto” di un processo di realizzazione del Sé che discende da una tradizione rigorosa, ma la cui vera realizzazione è nella propria intima natura, ricondotta alla sua Origine divina, indivisa e perenne.

Sabato 22 gennaio e domenica 23 gennaio, incominceremo a ripercorrere la storia, attraverso i suoi reperti, di questa magnifica e insuperata espressione dello spirito: l’Atman. Ne parleremo meditando dapprima nel folto della scrittura Vedica, fino ad arrivare alla contemplazione delle parole delle Upanishad.

“Meditazione e Contemplazione” è il tema della serie di Seminari che sono previsti da Gennaio a Giugno del 2022, con cui entreremo nelle idee e nelle pratiche delle scuole di Meditazione tradizionali dell’India, mantenendo però lo sguardo e l’attenzione al punto focale, origine e scopo dello Yoga e del cammino spirituale, così come viene esposto nelle Upanishad.

INFORMAZIONI

  • Sabato 22 gennaio, orario 15-18. Domenica 23, ore 9-12 e 15-18.
  • E’ richiesta una quota di iscrizione
  • Contatti: Beatrice.udainath@gmail.com Facebook: Beatrice Udai Nath
  • Tutti i seminari sono tenuti dal vivo via Skype, su chat dedicata.
  • Da Marzo 2022 sarà di nuovo disponibile la partecipazione in presenza, a Pesaro, nella Sede rinnovata.

Om Shiv Goraksh! Adesh Adesh!

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