Questo articolo è un lungo estratto della prima parte del seminario del 2-4 ottobre 2020, “Sulla Via dello Yoga”, in cui cerco di dare forma alle premesse del lavoro yogico e della conoscenza spirituale, come raffigurate nella teatralizzazione del rito vedico, secondo i Brahmana e le prime Upanishad. Parlare della Creazione è stabilire la premessa fondante della ricerca spirituale, che ha nel momento religioso l’esposizione di un Enigma non risolto, che solo la Gnosis / Jnana può aspirare a ricomporre. Questo articolo, per quanto corposo, si limita a esporre l’Enigma e indicarne la soluzione non convenzionale. Nel corso del Seminario, invece, ci azzarderemo a seguire le orme dell’Iniziato e ricomporre, mattone su mattone, il corpo glorioso dell’Immortale. La sua presenza, ci auguriamo, sarà visibile e riconoscibile per tutti coloro che hanno desiderio di incamminarsi lungo la Via, ad attenderli e guidarli lungo il cammino.
Questo seminario si prefigge di indagare la continuità e la relazione che intercorre tra la ritualità vedica, la sua attualizzazione nella devozione indiana, e le dottrine esoteriche che hanno dato origine al sistema dello Yoga.
Il primo e l’ultimo di questi termini, vedismo e yoga, hanno in comune un programma di ricerca che analizza e definisce in un vero e proprio sistema scientifico sperimentale, il problema della conoscenza – di ciò che distingue il vero dal falso – sia nella formulazione dell’oggetto della conoscenza (il vero), nei suoi strumenti e infine, nel problema forse più noto, del ruolo del conoscitore. Questo, il soggetto-oggetto del processo conoscitivo è l’io immerso nelle informazioni e nelle azioni, che deve risolvere la propria inefficacia, nell’uno e nell’altro campo, per comprendere perciò a quale Realtà deve riferirsi quando la sua azione e la sua conoscenza devono affrontare il vero e ottenere un risultato reale. Ciò che rimane di questa millenaria speculazione è proprio l’espressione di uno scopo coerente, la Realizzazione. Ciò che deve essere realizzato è la Conoscenza, che è espressa nei Veda, ma che deve essere realizzata, portare frutto, nella vita stessa e perciò deve essere sperimentata direttamente e verificata con la propria esperienza.
Dunque alla base del percorso che superficialmente definiamo religioso prima e spirituale poi, troviamo un problema scientifico, il problema epistemologico, a cui le scienze vediche e dello yoga hanno lavorato e dialogato nel corso del tempo, con risultati sorprendenti.
In questo senso il rituale vedico rappresenta il primo e più elaborato campo di indagine, il laboratorio e il territorio di ricerca privilegiato, dove la conoscenza vedica aveva sistematizzato tutto il mondo conoscibile e si è interrogata sperimentalmente, sul campo stesso, sul ruolo del conoscitore-attore dell’azione rituale.
Ma perché il rituale? Il rito è un grande gioco, una rappresentazione totalizzante dell’azione e delle forze in campo e delle loro reciproche interazioni. Un laboratorio sperimentale in cui è possibile osservare le forze in atto allo stato “puro”, non frammiste e composte nell’interazione contaminata dell’uso quotidiano.
Ho fatto perciò riferimento al gioco. Si può dire che ogni animale che è in grado di giocare, cioè imitare e riprodurre, con la consapevolezza della finzione, un evento o un’azione “reale” è in grado di distinguere il falso dal vero e di apprendere in quella dimensione separata le regole proprie del gioco, che siano o meno applicabili anche al di fuori del gioco stesso. Il gioco dimostra l’esistenza di metodi, regole, relazioni di causa effetto e linguaggi che si apprendono nel corso dell’opera, per così dire: il gioco è la camera della mente, la sua espressione di sé, dove in forma immateriale si riconoscono esistenti e correlati, processi, problemi e soluzioni condivisi.
Questo luogo “immateriale”, cioè separato dalla “realtà” del mondo, o come direbbero i vedici, sottratto alla sfera della morte, è il luogo dell’apprendimento, dello studio, e infine della meditazione e della preghiera. La mente, nel gioco come nel rituale, mette in scena se stessa, rappresenta i processi invisibili e visibili e stabilisce le connessioni tra gli oggetti e il conoscitore stesso. Anche il conoscitore, il soggetto dell’azione rituale o ludica, è uno degli oggetti in gioco. Il gioco stesso, però, è sostanza dell’oggetto e del soggetto del gioco. E in questo paradosso si colloca l’Enigma.
Numerosi passaggi delle meditazioni liturgiche dei Veda, i Brahmana, concludono gli enunciati, specie se riferiti ai nomi attribuiti ai pezzi del gioco, con la frase “…così è chiamato, perché gli Dei amano gli enigmi”. Io scelgo di tradurre paro’ksa con Enigma, seguendo Giorgio Colli, dove le traduzioni moderne hanno apposto “mistico” (Eggeling, Levy) oppure “occulto” (Malamoud). Seguendo Eraclito, che profetava “La Natura ama nascondersi”, e ritenendo questo nascondersi la Natura stessa, la natura del Gioco è l’Enigma. Esso spalanca l’enigma della mente e della realtà. Questo compresero gli antichi, che il rito è la formula dell’Enigma. Non è rappresentazione, o apprendimento, senza che, proprio per la sua funzione, non debba anche riconoscersi come l’essenza: poiché se lo scopo del gioco è sperimentare la realtà esso è in essenza il paradigma della realtà stessa. Dunque come chiameremo il gioco? e chi è il giocatore? L’Enigma perciò viene ripetuto a ogni passaggio nominale, perché la domanda ultima, che nessun nome può risolvere è “Chi?”, chi sta giocando… Di chi è il campo, il soggetto e l’azione del giocatore? Ancora dell’“io” ordinario, o il Gioco sta giocando attraverso di lui? E quindi il suo essere cosciente, presente all’espressione del Gioco, a chi appartiene?
Ogni pezzo degli elementi, nomi e forme, che si raccolgono e si ordinano secondo la logica del gioco e del rituale, sono simbolici. Ciascun pezzo, che sia la parte per il tutto o la sua rappresentazione visiva, stanno per un numero indefinito di altri, la bambola, il feticcio, l’utensile, sono in qualche modo il primo e il solo, l’originario, l’archetipo dei numerosi altri possibili, esistenti al di fuori del cerchio magico del rito e del gioco. Essi sono sottratti all’uso domestico e quotidiano, al numero, alla molteplicità, all’insignificanza, quindi alla morte. Abitano, per esclusione dal resto, un luogo di sottrazione e di agnizione. In questa dimensione sottratta al mondo, risplendono della loro natura sottile, non di oggetti ma di espressioni del discorso metafisico, elementi sottili che abitano non la materia, che nel sacrificio si disintegra, ma l’oggetto interiore, sottile, il suo significato che resterà unico, per qualsiasi numero di oggetti analoghi. Si può dire, e vedremo perché, che questi oggetti acquistino un corpo sottile, nel momento in cui il rito li sottrae all’uso comune. Uno è il sacrificio, uno è ciascuno dei suoi strumenti e oggetti. Ma chi/quanti è allora il sacrificatore/giocatore?
Anche questi muta la sua natura, come è mutata la natura dell’oggetto prestato al sacrificio. La successiva meditazione di Gaudapada sulla Mandukya Upanishad, analizzerà questo spiazzante fenomeno con enormi conseguenze filosofiche. L’io che abita i sogni, con cui ci muoviamo e agiamo nel sogno, è anche esso un fenomeno onirico. E’ un corpo sottile, agitato dalle stesse forze invisibili che formano la scena del sogno, non più reale degli altri oggetti che nel sogno compaiono, case, paesaggi e altre persone. Dunque l’io possiede questa facoltà, e così gli altri oggetti, di avere una forma e un nome che travalicano il mondo materiale, che possono sottrarsi ai vincoli del mondo ordinario, e spingersi in un paesaggio completamente immateriale e sottile, non di meno dotato di senso e di coerenza, che è nella mente, o meglio, secondo la geografia sottile, nel Cuore del sognatore. Questo è un luogo mediano, situato tra la terra e il cielo, tra la veglia e il buio del sonno senza sogni, un luogo che è ricettacolo e crogiolo di tutte le forme, da prima che esse abbiano una manifestazione materiale e indipendentemente da esse. Un luogo ultramondano, comunque, autosufficiente, svicolato dalla separazione tra i vivi e i morti, dove il Sé è come un Sovrano (Brhadaranyaka Up.), che guida e governa i suoi sudditi, i soffi vitali, a dispiegare i mondi sotto di sé. Egli è come un’aquila, prosegue l’Upanishad che sorvola i mondi, svincolato da ogni causalità. Esso è il piano causale stesso. L’Atman quindi si svela nell’esperienza del sottile, del sempre presente, libero da vincoli e sovrano dell’esperienza del mondo, dei mondi. Quello permane nelle tre dimensioni e ritorna intatto dall’aver vagato tra di esse, come tra la vita e la morte, immutato e costante.
Questo spirito identificato più tardi come l’io onirico del mondo dei sogni, quando giunge alle Upanishad è già stato formato e consolidato dalla sapienza vedica. Questo Atman è il corpo sottile che i rituali hanno forgiato con gli inni, che hanno costruito perché attraversasse vigile i mondi ultraterreni, quelli che si aprono dopo la morte, e vedesse in essi le pene e i meriti dei trapassati e apprendesse le vie del Ritorno, per guidare la coscienza a ritrovare la Via, senza essere irretito dai demoni. A questo lavoro di conoscenza spirituale, ecco la corretta definizione di un termine abusato, operano i procedimenti liturgici e le fatiche mentali del sacrificatore.
Come un Enigma mai risolto e sempre evidente, il gioco rituale si palesa agli occhi dell’iniziato, che solo lui, nella dimensione acquisita con la pratica, sarà in grado di impersonare. L’Enigma, come il sacrificio, non si scioglie, si incarna e si ostende.
L’ENIGMA DELLA CREAZIONE.
Quando nella narrazione delle origini incontriamo il Creatore, Prajapati, siamo di fronte al nocciolo dell’Enigma. Se il suo nome e le sue prerogative, di Padre di tutti gli esseri, sembrano rimandare alla figura nota di un Dio Creatore, la sua figura ci mette in scacco, poiché è sostanzialmente inesistente. Prajapati esiste nel momento che si dà nel Sacrificio, e nel Sacrificio si annulla, diventando la Creazione. Di Lui resta un’ombra scontenta che osserva, scorporata, la creazione disinteressarsi del suo sacrificio e allontanarsi da esso, in cerca di gratificazioni materiali. Anche il sacrificio stesso, ricordato e ripetuto come il pagamento di un debito materiale dai suoi figli, sembra essere finalizzato a mantenere un temporaneo profitto per chi lo officia, mentre la solitudine del Creatore resta costante e il suo desiderio (di “essere”) inappagato. Un cielo gnostico, sfavillante di fuochi e di potenze nate dal seme del Creatore stesso, sovrastato da una coltre minacciosa di divino scontento. A questa frattura cercheranno di rispondere le meditazioni liturgiche dei Brahmana, tese a compiere la prima e più importante riunificazione tra il cielo e la terra, tra il Dio nascosto nel mondo e la sua ostensione sacrificale, la ricomposizione del Corpo mistico del Creatore. La prima tensione alla non dualità. Solo così, meditando la frattura che il sacrificio stesso aveva compiuto, costituendosi, e cercandone la composizione dentro la sua stessa semantica, che si apre il cammino verso il cuore del labirinto, là dove Colui che cammina sulla terra, tra i fuochi sacrificali, l’umano sacerdote, incontra Colui che sta al centro e all’origine del gioco cosmico, faccia a faccia, riunificati.
Il sacrificio originario, quello che Prajapati aveva inaugurato all’inizio del mondo, quello che si ripeteva nei tempi vedici come sola e piena evidenza del trascendente, è il corpo del mondo ed è Prajapati stesso. Questa è la dura economia cosmica che impara Prajapati il creatore di fronte all’abisso che si spalanca davanti a lui all’inizio del mondo. “Solo il nulla vi era in origine: l’Universo era avviluppato dalla morte e dalla fame, poiché fame è morte.” Lo scenario in cui si mette in moto il sacrificio che darà luogo al mondo è questa mancanza fondamentale, la sovrabbondanza che ne scaturirà sarà offerta inesorabilmente alla fame, che è la morte stessa. Quello che gli uomini mangiano e consumano è il resto del sacrificio, ma ciò che il sacrificio offre, il suo frutto migliore deve essere ritornato agli dei, al sacrificio stesso. La sua sovrabbondanza, la sua eccedenza è la nostra carne.
Egli formulò: “Diventi atto al sacrificio il mio stesso corpo! Che io possa incarnarmi attraverso di esso”. Prajapati con il sacrificio si sottrae alla morte, al “nulla primordiale” che lo circonda e di cui è fatto egli stesso. Dà forma e sostanza agli esseri, che nascono perciò designati dal desiderio, che è il ricordo della fame che li stringeva alla morte in origine. Dal corpo smembrato di Prajapati discendono via via, per sessioni sacrificali successive e sempre più disperate, l’anno, i luminari celesti, le direzioni, gli Dei e gli altri esseri viventi, le varie forme animali, e solo infine gli uomini, ultimi depositari della sua ripetizione.
Prajapati è il Dio che scompare nel diventare il mondo, e già all’inizio, prima dell’inizio, in origine, niente esisteva nell’universo tranne lui: Lui Chi? Chi, infatti, diventerà il suo nome, la formula più oscura, l’Enigma per eccellenza, con cui evocarlo.
“In principio questo universo era solamente Quello (Atman) in forma di Purusha. Egli si guardò intorno e non vide altro che se stesso. Così per prima cosa disse “Io sono”. Perciò “io” divenne il suo nome. […] Questi fu il predecessore di tutti gli esseri e di tutto questo universo.”
Ritorna, con meraviglia questa infinità solitaria nell’Upanishad “Poiché quando vi è dualità l’uno vede l’altro, lo fiuta, lo sente, gli parla, lo comprende, lo riconosce. Ma quando nel Brahman tutto si è nel Sé, chi potrebbe vedere, fiutare, udire e come, chi potrebbe parlare, pensare e conoscere e come? Come si può conoscere Quello per il quale ogni cosa è conosciuta? Come si può conoscere il Conoscitore?” Nella stessa sillaba che sigla l’Enigma iniziale delle Creazione, è contenuta l’essenza di tutta la dottrina del Vedanta.
Quando studiosi e indologi ed esegeti chiameranno Prajapati il Dio, attribuendogli questa o quella divinità del pantheon, cercheranno di ridurre questo mistero originario a qualcosa che si possa in qualche modo accostare alla teologia. Ma la teologia di Prajapati è sfuggente. Una delle prime creature che scaturirono al suo sacrificio furono i Veda, che sono i fondamenti, come legge perenne del mondo, che quindi a loro è successivo e derivato. E come creatore dei Veda, egli è Brahma. Come Brahma è nominato mentre concupisce la sua creazione-creatura, perché per generare una stirpe ha bisogno di unirsi a un essere femminile, che è comunque nato da lui stesso, poiché niente altro esisteva prima di lui, e come Brahma è condannato per questo incesto. Come Brahma è padre dei grandi progenitori delle stirpi vediche e sacerdotali, i Manu, Daksha, ecc, che condividono sua stessa la passione per l’Aurora, che li costringere a emettere il seme, come ripetizioni, multipli del primo. Quando si osserva farsi sostegno e fondamento del mondo, Egli è il Sacrificio stesso, che fonda l’esistenza di tutti gli esseri e che tutti gli esseri nutre, e quindi è Vishnu, nelle cui bocche spalancate, Arjuna vede avvicendarsi i mondi, gli dei e gli uomini, che dal sacrificio salgono al cielo o ricadono nella trasmigrazione. Ma come Agni, che del sacrificio è il cuore, il centro e la direzione verticale, il fattore di trasformazione e di illuminazione, è Rudra. E come Rudra, Agni svolge la funzione principale del sacrificio, che verrà massimizzata nel vedanta e nello yoga, la ricomposizione dell’unità perduta, dalla dualità alla non dualità. Dunque Prajapati perdendo, senza mai conoscere, una identità univoca, nella teologia del sacrificio riassume i tre momenti della creazione e del riassorbimento: la separazione e la caduta, che segnano l’avvento del mondo manifesto, il suo sostegno all’esistente nella continuità sacrificale, e infine il suo compimento finale e ricongiungimento, o riassorbimento e liberazione. Ma nominalmente, dal fatto stesso che ne determina la rappresentazione, il suo nome scompare, per restare solo come meditazione liturgica, il Chi insondabile che sta nel gioco del mondo, il rito, e nel suo cuore vivente, il sacrificio.
Nel Satapatha Brahmana il Nulla prima della creazione è abitato da sette soffi vitali, come quelli che abitano ogni essere vivente e senziente. Essi non sono altro che Spiriti, detti perciò veggenti, Rishi, maestri di “austerità”, yogi senza corpo e senza forma. Sono i soffi vitali puri, la cui natura è spirare, verticali, quindi caldi, quindi dotati di Tapasya, di ardore ascetico. Essi si unirono in uno solo – e questo è già il modello che lo yoga eleverà a compimento finale, riportando lo yogi da mortale, alla condizione dell’origine stessa – e dalla loro unione in un solo corpo, fu il Purusha: la forma dell’essere, l’esistente e questo Purusha divenne Prajapati. Poiché i soffi si sono unificati in un solo essere, egli è solo, ed è dotato grazie ai soffi di pensiero e percezione. Il racconto del Satapatha, che nello stesso libro è ripetuto con alcune varianti, è la trama su cui si solleverà sia il fondamento del sacrificio, che la dottrina delle Upanishad, in un crescendo di variazioni, tutte finalizzate a ritrovare l’origine dell’Essere.
Nei testi che compongono i vari volumi di liturgia e di esegesi vedica, appaiono versioni discordanti dell’evento originario. Quindi all’inizio, in origine, sono identificati come primo esistente: i soffi, il nulla, i Rishi, il Brahman: “in origine vi era il Brahman soltanto… meditò e divenne Prajapati.” Le discordanze apparenti – in maniera non dissimile dalla proliferazione di nomi che in futuro indicheranno al liberazione dal giogo della nascita-morte (Mukti, Nirvana, Sunya, ecc) – sono espressioni di uno stesso concetto univoco e certo: Prajapati è il sacrificio. Il sacrificio, come Prajapati, padre delle creature, è anteriore a tutti gli esseri, ed essi non potrebbero sussistere senza di esso. Egli si raffigura nascere dai soffi o dalla mente (divisione concettuale che caratterizzerà l’elaborazione delle due scuole “rivali”, yoga e vedanta), ma in numerose occasioni sarà ribadito che soffi e mente sono in realtà la stessa cosa, poiché dove vanno i soffi va la mente, dove va la mente vanno i soffi. La mente è nella posizione ambigua di rappresentare la sintesi o invece di restare il gregario dei soffi vitali. Quando la mente riesce a imporsi su di essi, e non a seguire i sensi ciecamente, diventa la divinità del suo cosmo. E il SB infatti chiama in causa Indra, all’inizio, che non è ancora il gioviale signore degli dei, ma è soltanto la rappresentazione del suo nome stesso: colui che ha facoltà di. Indrya è la parola che indica i sensi, dieci sensi che muovono e connettono il corpo con il mondo circostante, a indicare facoltà di fare e percepire. Indra è nell’Origine il soffio centrale, colui che assume il potere verticale di organizzare i soffi in una personalità unica, il Purusha, dotato di forma e mente operative. Dunque l’origine del Purusha è già un atto yogico, la riunificazione dei sensi/soffi attorno al soffio centrale, lo Spirito, che ne determina la funzione, la sintesi e l’unità. E il Brahmana offre un indizio della soluzione dell’Enigma: il nome Indra infatti deriva da indha, accendere, Indra è in realtà colui che accende. Il nome “divinizzato” della facoltà di accendere, che è l’atto precipuo del sacerdote che accende il fuoco, è un tassello dell’Enigma.
Egli, con il suo potere (indriya), accese gli (altri) soffi vitali dal centro; e in quanto ha acceso (indh), è colui che accende (indha): colui che accende, infatti, lo chiamano (allegoricamente) ‘Indra’, perché gli dei amano l’Enigma. Loro (i soffi vitali), essendo accesi, crearono sette persone separate (puruṣa).[S.B]
E’ anche detto “Prajapati è la mente”. L’atto creativo iniziale di Prajapati è indicato in due termini che sono enigmaticamente collegati: si parla talvolta delle Acque (Ap) o dello Splendore (Arka) o per meglio dire del Brahman, inteso come l’insieme delle dottrine e le formule sacre dei Veda. Le tre preposizioni sono intimamente connesse in un continuum simbolico.
“Egli creò la mente, dicendo tra sé : “Che io possa avere una mente”. Quindi trascorse qualche tempo in adorazione, e in virtù di tale adorazione si produssero le acque. Allora Egli comprese che adorando aveva conseguito l’acqua. Chi conosce l’origine dello splendore (Arka), comprende come conseguire l’acqua e diviene partecipe di felicità.
L’acqua era splendore. La schiuma delle acque si consolidò e diventò la terra. E quando anche la terra fu creata, Egli si sentì stanco. Mentre conosceva la stanchezza e il turbamento, la sua essenza e la sua gloria emersero all’esterno. E questo fu il Fuoco. Poi si scisse in tre parti, una il fuoco, una il sole, una il vento; questo è il triforme spirito vitale (Prana).” [Br.Up]
Parola polisemica e metafisica, Arka, lo splendore, ciò che è proprio del sole, appare come il “e la luce fu”, della Genesi. Fu una luce che procedeva all’unisono con la Parola/mente, Vac, di cui rappresenta l’aspetto cognitivo, la coscienza. La mente è il primo desiderio del creatore, e la mente è quella Vac, quella parola capace di creare, di dare luce, luminosità percettiva, radianza al tutto circostante. Perciò essa è l’Acqua, perché l’acqua pervade e vivifica ogni cosa
Creò le acque da Vāc (la parola, cioè) il mondo; perché la parola gli apparteneva: quella fu creata (liberata). Essa aveva pervaso tutto l’esistente; e poiché pervadeva (āp) qualunque cosa ci fosse, quindi (è chiamata) acqua (āpaḥ); e poiché copriva (var), quindi anche (è chiamata) acqua (vār).[S.B.]
Ark segna la relazione che nella mentalità vedica esiste tra risplendere, illuminare e cantare. Il creatore è prima di tutto sacerdote, e quindi cantore, poeta. Proprio perché ha inventato l’adorazione (ark) è in grado di far scaturire le acque.
Cantare e adorare non sono termini generici. Il canto e l’adorazione di Prajapati corrispondono alla creazione dei Veda, che sono indicati anche con il più metafisico termine Brahman. Brahman, che significa l’espandersi, ciò che tende all’espansione, è come sappiamo un termine che ha assunto il significato di Assoluto, senza attributi, puro e perciò immobile. Ma la sua prima espressione è quella implicita nel nome di propagarsi, espandersi, come le Acque primordiali, di cui è inerente. E’ la Parola originale, Madre Vac, il suo discorso, il logos immanente all’origine della creazione. Brahman è Maschio, l’Essere-nulla, ed è Femmina, la Parola-creatrice, è immutabile e mobile, eterno e dinamico. Esso/a è i Veda. I Veda racchiudono la regola, il Dharma che può fornire alla nascente creazione una forma e un ordine e mano a mano che essi si espandono, come Acque amniotiche in cui è contenuto il seme creativo del Padre, e il cosmo può assumere una forma, che è perciò “radianza”, visibilità.
E’ tipico del pensiero mistico definire la luce una funzione biunivoca: è luminoso l’oggetto perché si vede, è luminoso l’occhio che guarda perché illumina un oggetto altrimenti non visto, oscuro. Perciò l’occhio diventa il luogo in cui si manifestano i poteri del Sole e la creazione è la sua Radianza, effetto della luce che emana dalla coscienza osservatrice. Entra perciò in forma implicita, riflesso nella luminosità delle acque-parole, uno dei soggetti principali del creato: il Sole, che in una propria ascesa al cielo dei nomi del Padre, diventerà perenne simbolo del Sacrificio, la presenza quotidiana e la periodicità del sacrificio che sovrasta ogni cosa, l’occhio del Padre che vede ogni cosa, il sacrificio ininterrotto in cui officiano gli Dei stessi.
In quanto Sole, che discende dalla creazione primaria, subito dopo le parole-acque, Prajapati è quindi l’anno, “Prajapati è l’anno”, poiché il movimento del sole stabilisce il corso del tempo e la successione dei sacrifici annuali. L’anno, il corso del sole, quale insieme che tiene in ordine consecutivo le celebrazioni rituali, l’anno è l’intero che unifica in un solo corpo le singole azioni rituali stabilite periodicamente lungo il suo corso stagionale. Così Prajapati, in quanto anno, è “uno”, oppure “composto di parti”, dove le parti sono i mesi, l’enumerazione delle sillabe nel verso, gli elementi ecc. Dunque il nome di Prajapati, fissato in questa indeterminatezza quantica, è Ka, Chi? Chi è Prajapati?
Questo è il nome mistico di Prajapati, il suo nome è la domanda: io chi sono? Così è stato percepito nel Vedanta, con questa formula l’iniziato si porta sul piano immateriale del sacrificio. Ma forse, di fronte alla imminenza del sacrificio, è stato prima il grido della bestia sacrificata: “che ne sarà di me?” Questa domanda è una domanda chiave di uno dei passaggi della creazione descritta nel Brahmana, e il rovesciamento percettivo che si verifica soggettivamente, fin da subito, in ogni singola cosa creata.
“Chi conosce l’origine dello splendore (Arka), comprende come conseguire l’acqua e diviene partecipe di felicità”.
La Felicità che discende dalla conoscenza dell’origine dello Splendore, dei Veda, è la felicità del Sommo Bene. Lo splendore dei Veda è la loro veridicità (Satya, verità, ciò che è, l’essere), perché i Veda, discendendo dal primo afflato creativo ne esprimono la coscienza, lo “splendore”. Consegue l’Acqua, la conoscenza e la pervasività su ogni fenomeno, chi conosce l’origine della parola vedica, cioè il Brahman, chi vede l’origine delle scritture scaturire direttamente da esso. Questa è la realizzazione “felice” delle opere sacrificali, la Felicità vera. Da questo assunto il filosofo del Vedanta Shankaracharya, potrà affermare ricorsivamente che solo la realizzazione del Brahman è felicità, mentre le altre soddisfazioni sono transitorie; così la sua tesi a proposito di “cosa” si debba realizzare, ritornerà su questo assunto: si deve realizzare il Brahman che è descritto (elusivamente, enigmaticamente) nei Veda, che sono perciò la sola fonte attendibile della dottrina. Le Scritture, il Brahman, il Sè devono perciò coincidere. Come il sacerdote che esegue il rito a perfezione finirà per identificarsi con il sacrificio, che è Prajapati, che prende “corpo” grazie al sacrificatore, così la coscienza, il Sè restituito dal sacerdote a Prajapati coincide con la coscienza che espresse in origine i Veda, e il Sé (atman) dell’iniziato coincide con il Brahman, la conoscenza stessa. Questa riunificazione, che è il compito della procedura vedica, è il gioco per raggiungere la felicità.
Come lo scopo del sacrificio vedico è dichiaratamente la ricostruzione del corpo smembrato del Padre, lo scopo dello Yoga è ricomporre la frattura dell’individuo dalla sua Origine, che nei Veda è il doppelganger sacrificio-sacrificatore. Così il Satapatha dichiarerà che ha compiuto in verità il sacrificio chi è diventato una cosa sola con esso, poiché è diventato Prajapati stesso, così lo yogi procederà con il sacrificio dei sensi, verso la stessa unità e divinizzazione. Tutto ciò che abbiamo appreso dello yoga, occidentalizzato o meno, aveva alla base questa visione sacrificale primaria, che era nota, assodata e condivisa da tutti i maestri che in origine svilupparono le sue conseguenza filosofiche e pratiche.
“Prajapati ha – dunque – per membra gli inni; Prajapati è colui che sacrifica.” Questa formula del Satapatha è la chiave che andiamo a far scattare per penetrare il labirinto dell’Enigma. Le membra di Prajapati sono le Scritture, membra di Prajapati sono canti e inni; se il corpo di Prajapati è la conoscenza sacrificale: Prajapati è colui che compie il sacrificio.
Prajapati è dunque “figlio delle Acque, e figlio del Brahman, della formula sacra, poiché nasce facendosi queste creature”. La filiazione di Prajapati, il Padre, che nasce dalle sue creature è l’Enigma, che il sacrificio mostra nella sua interezza e insondabilità. Egli è il Padre e il Figlio, attraverso l’azione creatrice del Sacrificio, che lo ricompone. Questa è l’essenza dell’Enigma. Che riecheggia anche in religioni molto vicine a noi.
Prajapati per creare ricorre al Tapas, l’ardore bruciante dell’ascetismo, che è metonimia del sacrificio. Egli arde, si ignisce per emettere le creature. L’ascesi, i riti e le formule sono la matrice in cui emette il seme, e dove si formano le creature secondo logos, la parola sacra degli inni.
“L’acqua era splendore. La schiuma delle acque si consolidò e diventò la terra. E quando anche la terra fu creata, Egli si sentì stanco. Mentre conosceva la stanchezza e il turbamento, la sua essenza e la sua gloria emersero all’esterno. E questo fu il Fuoco.”(Br.Up)
La Creazione ha un costo altissimo per il Padre. Unico sentimento che spinge Prajapati a creare è “il desiderio di progenie, il bisogno di moltiplicarsi” e ogni creazione è una letale “emissione”. Talvolta emette direttamente dal suo corpo, organo dopo organo, le diverse classi di creature. Altre volte, come il corpo gonfio del cavallo sacrificale in decomposizione, i vari arti smembrati diventano via via gli elementi costitutivi del cosmo. Oppure sono i soffi vitali che fuoriuscendo dal suo corpo esanime vanno a formare gli dei e i mortali. Ancora, il suo corpo è un uovo o emette un uovo, l’uovo è toccato dal Padre, o è egli stesso che si ingravida e dà alla luce gli esseri, in una singolare androginia del Creatore.
Nella Brhadaranyaka è riportato il modello di procreazione per successivi accoppiamenti.
Quindi si rese conto che il suo corpo era esteso quanto un uomo e una donna abbracciati e divise quindi il suo corpo in due parti, il marito e la moglie. E con essa si congiunse e generò la stirpe degli uomini.
Ma come è possibile, pensò lei, che colui che mi ha generato voglia congiungersi con me? Quindi volle nascondersi. E così divenne mucca e l’altro si fece toro, e da ciò nacquero i vitelli; lei si fece giumenta e lui cavallo, lei asina e lui asino, e nacquero così tutti gli animali con gli zoccoli. Quindi lei divenne capra e lui caprone, lei pecora e lui montone, e nacquero gli ovini; e così proseguendo nacquero tutti gli animali, fino alle formiche.[Br.Up.]
Il ricordo di questa scorribanda creatrice gioviale ritorna nel più moderato Satapatha, poiché il creatore Prajapati è sfinito (rilassato), smembrato, a pezzi: poiché “ha corso” lungo tutta la creazione, è sottinteso, all’inseguimento della sua compagna, e si ritrova esausto, “come chi ha corso” e perciò “chi corre si ritrova esausto”, aggiunge il Brahmana. Chiosa questo stesso momento l’Upanishad “Mentre conosceva la stanchezza e il turbamento, la sua essenza e la sua gloria emersero all’esterno. E questo fu il Fuoco.” Perché stanchezza e turbamento seguono lo sforzo che compie, come uno yogi, per “essere”, per divenire-ad-essere. Ma la creazione lo abbandona insieme all’energia che ha impiegato. Prajapati, compiuta la sua opera cade a pezzi, deve invocare il soccorso delle sue creature principi, per ricomporlo. Ma anche gli Dei, quando il soffio centrale lo ebbe abbandonato, lo abbandonarono.
Allora “disse ad Agni: Ricomponimi!”. Ormai, è detto, “non era più che un cuore, giaceva”.
E ancora “quando ebbe emesso le creature, Prajapati si sentì svuotato; ebbe paura della morte”.
Si può anche intendere, in questo susseguirsi di scenari desolati che la creazione non è un atto unico, ma una serie di tentativi e di risultati parziali, che non soddisfano il creatore, che ancora deve invocare, ogni volta, il sacrificio e richiamare degli officianti perché lui stesso, ricomposto, possa nuovamente impegnarsi nel sacrificio e creare. Qualcuno ha detto che i Brahmana raccontano una serie di esperimenti falliti. In realtà, però, non si deve leggere questa circostanza come una teologia monoteistica (mai!) farebbe. E’ una descrizione allegorica, è un Enigma, che espone l’estrema difficoltà della sua soluzione, considerando molte variabili e condizioni avverse. E’ anche un modello e resoconto sperimentale, come si diceva, della concreta esperienza e delle prove a cui il sacerdote teurgo è sottoposto nel corso della sua opera terrena. L’uno è l’altro, questo è il vero problema, la totale immanenza e simultaneità dei piani.
Nel Satapatha, Agni è descritto assumere definitivamente il ruolo richiesto, di restituire, con il rito, l’interezza del Creatore. Prajapati, che è il Padre degli dei, è anche, da questo punto di vista, loro figlio. “Egli è Padre e Figlio: in quanto ha emesso Agni, è il padre di Agni; in quanto Agni l’ha ricomposto, Agni è suo padre. (…) Essi sono insieme il Padre e il Figlio, Prajapati e Agni, Agni e Prajapati.(…)”
Se questa espressione si estende a tutti gli Dei, Agni è colui che ottiene dal Padre di essere detentore dell’essenza, per così dire, della divinità. Il Nòme: e chiederà al Padre di dare a lui i nomi che lo disegnino e che lo elevino all’opera a cui è chiamato. Sarà così conferito ad Agni il nome di Rudra, Sarva (tutto), Pasupati, Ugra, … e infine Mahadeva, Signore degli Dei. Agni è quindi Rudra e Mahadeva, che adoreremo d’ora in poi con l’epiteto di Benevolo, Shiva. E in questa opera, di restituzione del Creato al Padre (e del Padre al Creato) comprendiamo in cosa consista la Sua somma benevolenza, la sua consustanzialità finale con il Supremo.
Agni, segretamente, era il supremo, il primo fin dall’inizio, così il Satapatha “svela” l’Enigma: “Ora l’embrione che era dentro è stato creato come il primo (agri): in quanto è stato creato il primo (agram) di questo Tutto, quindi (si chiama) Agri: Agri, infatti, è colui che chiamano (allegoricamente) Agni; perché gli dei amano l’Enigma”.
Le creature una volta emesse sono, di volta in volta: inanimate, affamate, indistinte, ghermite dalla morte; e il Demiurgo deve prima correre ai ripari, e dare loro alito, cibo, e definire le loro diverse classi, e poi strapparle alla Morte. Sempre procede “adorando, faticando, desideroso di una progenie”, pratica austerità e sacrifici che durano millenni. Ma una volta nate e rese coscienti, le creature si allontanano da un’azione così tremenda e violenta come il sacrifico, e quindi dal Padre stesso, terrorizzate, timorose di essere divorate. E perciò deve ancora inventarsi qualcosa che le trattenga o le faccia ritornare a Sé.
Al suo fianco, o meglio nel suo cuore esausto, che giace privato degli organi, il Creatore è ancora dotato della sua forza creatrice, che gli è intrinseca, Vac, la Parola. E’ grazie a Lei che questo Dio senza sostegno può decidere di risalire all’unità, ed è lei a indicargli la via. “Vac gli disse: offrilo. Egli disse: Chi sei? La Voce, che è tua, rispose lei. Egli fece l’offerta con la parola: Svaha (colei che è la mia propria l’ha detto)”. E ancora: “Prajapati emise le creature e svenne; Vac elevò per lui una luce. Egli chiese: Chi dunque ha elevato una luce per me? La tua stessa Voce, disse lei”.
Grazie al consiglio della Parola, Prajapati comprende che la continuità del sacrificio deve permanere e diffondersi tra gli Dei e poi tra tutti coloro, gli uomini, che desidereranno affrancarsi dalla morte. Ma poiché è il sacrificio, Prajapati è anche il primo dei sacrificanti. Occorre che immoli se stesso per insegnare agli Dei a compiere i riti salvifici. “Prajapati offrì se stesso agli Dei sotto forma di sacrificio”, e con un sentimento quasi cristico si dice ancora: “Prajapati offrì se stesso agli Dei. Il sacrificio era per loro, poiché il sacrificio è il cibo degli Dei.”