“La via iniziatica nel Sanathana Dharma”

I temi degli incontri:

“Agni Rahasya, il Fuoco Sacro. Conoscenza iniziatica e rituale nel Mondo Vedico.”
Il mondo rituale vedico, esposto e concluso attorno al Fuoco Sacro, rivela l’ambigua e sfuggente natura di Enigma della personalità divina: chi è Dio? Analogamente, l’enigma è il sentiero misterico, dove sono prescritti atti teurgici, imitativi della azione creatrice e distruttrice del Dio, che manifestano la visione diretta del Mistero e dell’Enigma divino. Con queste azioni “si fa ciò che fecero gli Dei”, portando gli officianti alla dimensione in cui l’universo accade, gli dei accadono, il mistero si compie. Il sacerdote evoca il mistero nella dimensione della Teurgia, così il rito, il fuoco, il sacerdote, l’iniziato, divengono parte attiva della segreta natura trascendente del cosmo. Questi misteri, in gran parte perduti, possono essere comunque ri-conosciuti allo scopo di comprendere effettivamente la dimensione segreta e diretta che è stata (ed è) la via iniziatica. Senza comprendere questa dimensione operativa qualsiasi denominazione o formula ricade nella dimensione essoterica, fideistica e duale.

“La presenza di Shiva. Estasi, ascesi e trascendenza.”
Il nostro percorso incontra quindi il sentimento religioso estatico dell’antichità, fatto di rivelazione diretta, estasi e contemplazione della natura nella sua profondità trascendente. La figura di Shiva, in parallelo al suo analogo Dioniso nel mondo Mediterraneo, trasporta questo sentimento nella presenza non duale, nell’esperienza della teofania che si manifesta nell’estasi, nello stupore, nell’ispirazione illuminante e nella poesia mistica. Shiva appare all’origine come Rudra, dio delle tempeste, delle vette, dei luoghi impervi e delle prove più ardue e trasformative, che aprono la coscienza a superare i limiti dell’esperienza empirica per spalancare la libertà assoluta e superare la condizione mortale stessa. Così, come coloro che entravano nei misteri dionisiaci si chiamavano Bacchi, colui che ha conosciuto Shiva diventa immagine e presenza dello yogi supremo, della coscienza dell’essere, Shiva.

il Suono, il seme, la parola e il Mantra nella filosofia dello yoga.
Nell’india arcaica il Fuoco era ed è il centro della vita religiosa, e con esso il rituale che lo custodiva: la recitazione orale delle formule sacre, i Mantra.
Lo stesso sacrificio era stabilito e diretto dalla pronuncia dei Mantra, che ne dignificava l’identità, il significato, le corrispondenze mistiche e cosmiche. Senza mantra, non c’è sacrificio. Perché il fuoco da elemento naturale si trasformi in sacrificio, in sacro, è necessaria la Parola. Si stabilisce una interdipendenza tra Fuoco e Parola per cui il fuoco contiene il germe della parola e la parola, il mantra, la condizione del sacrifico. Questa relazione di unità inscindibile è il fondamento della contemplazione del mistero di Shiva e Shakti – quindi tra Fuoco e Parola – così come tra Seme e Forma. La parola è l’elemento indispensabile perché si compia il sacrifico, così come la Conoscenza, che la parola rappresenta, diventa lo scopo della liturgia e del percorso spirituale. Come la Parola del Mantra consacra il fuoco, la Conoscenza accende la liberazione. Alla Dea della Conoscenza, la Parola, La Madre spirituale, gli inni vedici dedicarono un canto straordinario, con cui sancirono la sua superiorità su qualsiasi altro fenomeno: solo la Parola, o conoscenza, è la Dea che conferisce il potere, la fama, il successo e infine la apoteosi del suo eletto, di quello che ha saputo ricevere la sua grazia, che è il dono poetico, la profezia, la lucidità della decisione, la veridicità, e infine la conoscenza spirituale della liberazione.

“Kechari Vidya e dottrine segrete. Iniziazione, morte e immortalità nello yoga delle origini”
Le vite leggendarie e le dottrine dei Nath sono profondamente collegate, non esiste una dottrina che non sia intimamente connessa alla figura di un personaggio – eterno e sempre presente – che la incarna e la vivifica. Tutto quello che lo Yogi deve sapere, in realtà, deve essere compreso proprio all’interno del corpo presente (e immortale) dello Yogi. Il Kechari mudra è il sigillo di Adi Nath, il primo Nath, che la tradizione identifica con Shiva: il suo nome infatti significa semplicemente che egli era il primo (Adi) Signore di tutto. Che altre tradizioni parallele chiamano anche Pasupati, il signore degli esseri, o il signore degli animali. Forse proprio quello che troviamo nel celebre sigillo della civiltà Mohenjo Daro, circondato da animali selvatici. Questa figura che ricorre fino a noi, nelle rappresentazioni “primitive” dove si debba celebrare un eroe, un grande guerriero, colui che ha sottomesso le forze avverse e viene portato in trionfo dagli animali.
Il contenuto dell’insegnamento del Kechari Vidya è arrivato a noi attraverso un testo del secolo XV che riporta l’insegnamento di Adi Nath, come lo avrebbe esposto a Parvati. E’ presentato da Adi Nath stesso come una scienza magica, perciò misterica, non letterale, il cui esercizio rende eternamente giovani e immortali. Kechara è colui che acquisito questo mezzo diventa capace di guarire ogni malattia, di evitare la morte, di vagare liberamente per i tre mondi: sono queste le caratteristiche dello Yogi Kechara “volante”, come quelle di uno sciamano. Oltre a queste doti soprannaturali, egli è il signore delle Yogini, ed è identico a Shiva.

Il ciclo di seminari si svolgerà in 4 giornate di incontri, che sarà possibile seguire, in presenza a Pesaro, oppure su Zoom. Tutti i seminari saranno registrati e le registrazioni resteranno disponibili per gli studenti per il download, in caso di assenza o per riascoltare il contenuto.
Orario dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 19.
A Pesaro, via Togliatti 20 e su Zoom.
Il costo dei seminari è di Euro 120 ciascuno. Acquistando il pacchetto dell’intero ciclo, il costo scontato è di 450 Euro.

Approfondimenti tematici:

Agni Rahasya, il Fuoco Sacro. Conoscenza iniziatica e rituale nel Mondo Vedico.

Questo seminario si prefigge di indagare la continuità e la relazione che intercorre tra la ritualità vedica e le dottrine esoteriche che hanno dato origine al sistema dello Yoga. In questo senso il rituale vedico rappresenta il primo e più elaborato campo di indagine, il laboratorio e il territorio di ricerca privilegiato, dove la conoscenza vedica aveva sistematizzato tutto il mondo conoscibile e si è interrogata sperimentalmente, sul campo stesso, sul ruolo del conoscitore-attore dell’azione rituale.

L’inno al Puruṣa (Ṛg-veda X, 90), descrive lo spirito supremo concepito come la Persona o l’Essere (Puruṣa), nato all’inizio e costituito da “qualunque cosa sia stata e qualunque cosa sarà”, la creazione dell’universo visibile e invisibile è rappresentata come originata da un sacrificio (yajña) in cui “tutto è offerto”, in cui lo stesso Puruṣa è il materiale di offerta oppure, come si potrebbe dire, la vittima.
Prajàpati, nei Brahmana prende il posto del Purusa, l’uomo universale, o Personalità universale, e viene offerto di nuovo in ogni sacrificio; e poiché lo stesso smembramento del Signore delle Creature, avvenuto in quel sacrificio archetipico, era di per sé la creazione dell’universo, così ogni sacrificio è anche una ripetizione di quel primo atto creativo. Così il sacrificio periodico non è altro che una rappresentazione microcosmica della distruzione e del rinnovamento ininterrotti di tutta la vita e la materia cosmica.

Offrendo il proprio sé in sacrificio, Prajàpati viene smembrato; e tutte quelle sue membra separate e le sue facoltà vengono a formare l’universo, tutto ciò che esiste, dagli Dei e gli Asura, fino al verme, al filo d’erba e alla più piccola particella di materia inerte. Il sacrificio è richiesto per ricostruire il Signore smembrato nelle Creature e restaurarlo in modo da consentirgli di offrirsi ancora e ancora e rinnovare l’universo, e quindi mantenere la rivoluzione ininterrotta del tempo e della materia.

Le operazioni sacrificali sono la restaurazione del Signore smembrato delle Creature e la ricostruzione del Tutto, tra cui, la costruzione del grande altare è la più formidabile e adattata a questo grande scopo simbolico. La grandezza stessa della struttura, anzi, la sua estensione praticamente illimitata, unita all’immenso numero di singoli oggetti – per lo più mattoni di vario genere – di cui è composta, non può che offrire condizioni sufficientemente favorevoli per escogitare quello che potrebbe sembrare un algoritmo simbolico dell’universo visibile. Il nome stesso “Agni”, con il quale viene invariabilmente designato l’altare del fuoco, indica fin dall’inizio un’identificazione di importanza fondamentale: quella di Prajàpati con Agni, il dio del fuoco, e il sacrificio. Come Prajàpati è il sacrificio, così Agni è il divino sacrificatore, il sacerdote del sacrificio. Da qui la triade che si verifica costantemente: Prajàpati, Agni e (l’umano) Sacrificatore.

Agni è sia il padre che il figlio di Prajàpati: “poiché Prajàpati ha creato Agni, è il padre di Agni; e poiché Agni lo ha restaurato, Agni è suo padre”. Questo Mistero, in cui il divino deve rinascere morire per mano di uno strumento articolato come il rituale è l’argomento teologico e liturgico dei Brahmana, che indagano il Mistero attraverso la meditazione delle azioni rituali e ritualizzate. In particolare, l’Agni Rahasya (decimo libro del Satapatha Brahmana) è un testo esoterico, Rahasya sta a indicare la conoscenza segreta, quella che nemmeno il testo può interamente svelare, ma alludere, per enigmi. E’ il testo esoterico per eccellenza, che si esprime con l’allegoria. Allegorico è un discorso che pur essendo valido anche alla lettera, è comunque inteso per rappresentare un contenuto astratto, non dicibile che per un’immagine allegorica, che la figura o la narrazione raccontano attraverso un soggetto riconoscibile, di solito canonico. Così è per il Rahasya, che prosegue raccontando come il Sacrificio primigenio scaturisse dalla mente e poi si sia manifestato con la parola, poi nel respiro, poi con l’occhio, vedendolo, e con l’orecchio, ascoltandolo, e infine con il lavoro e solo in ultimo e concreto oggetto, nel fuoco. Ma enigmaticamente conclude che solo nella Conoscenza questo mistero è davvero compiuto.

Conoscenza e realizzazione della presenza di Shiva. Estasi, ascesi e trascendenza.

Shiva è il distruttore delle illusioni, colui che protegge gli eremiti, gli asceti, coloro che vivono distaccati dal mondo. Shiva è il Dio supremo, la liberazione, il padre e la madre celesti, il grande Yogi, la coscienza suprema, la non dualità, l’immortale, il Signore degli Dei e di tutti gli esseri.
“Mi inchino a te, che hai l’estensione dello spazio. Tu che hai l’aspetto di un eremita dai capelli intrecciati, con il bastone tra le mani, il ventre magro e la ciotola delle elemosine. Mi prostro a Te che sei la purezza. Tu che porti il tridente, che sei il Signore degli Dei, Tu che hai tre occhi, che sei lo spirito supremo, che sei coperto di ceneri e itifallico. Mi inchino a Te, Signore Rudra! La mezza luna adorna la tua fronte, il serpente avvolge il tuo collo, tu che impugni l’arco e il tridente. Mi inchino a Te, dall’aspetto feroce. Tu sei l’anima di tutte le creature. Tu sei il creatore e il distruttore di tutti gli esseri. Tu sei senza ira, senza inimicizia, senza attaccamento. Mi inchino a Te che sei l’immagine della Pace!” [descrizione di Shiva nel Mahabharata – Santi Parva, XLVIII]

Chi è il signore degli Dei, il Mahadeva, perché il Grande Yogi può essere definito il Signore degli Dei? A partire dalle immagini dello Shamano primordiale e dei suoi attributi, evocatore dei mondi invisibili, guardiano, mago e psicopompo, il Signore degli animali, ci incammineremo nel sentiero che parte dall’eternità, cioè la più remota preistoria, fissata in un tempo infinito, prima che il tempo degli uomini avesse iniziato a scandire il mondo. Ci immetteremo lungo la via religiosa e il sentiero nascosto e contorto dell’estasi, la via esoterica e misterica, la via stretta e paradossale, nel percorso (im)possibile da e verso il Dio dell’estasi, il Dio straniero e mendicante, fuori dalle caste, il liberatore, l’origine nascosta di tutto.
E che cos’è dunque l’estasi, lo Shiva tattwa, la qualità della presenza di Shiva. Come si manifesta l’unione non duale, e come si dischiude la potenza, Shakti, che emana la creazione. Quali sono le immagini primordiali del Dio supremo e dove si incontra la sua realizzazione? Lo cercheremo nei canti che ne proclamano la presenza, analizzando il Rudra Namakam, dallo Yajurveda Taittiriya Samhita (TS 4.5, 4.7).

Il nome di Rudra, il Rosso, l’Urlante, il Terribile, è associato comunemente a un dio vedico delle tempeste. Le riduzioni naturalistiche, però, non rendono giustizia alla complessità della figura che lo Yajur Veda intende evocare con la litania delle forme e delle manifestazioni del Dio, che da subito si situa sul piano della Realtà Suprema, per diventarne l’invocazione potente e soprattutto estatica della presenza, la voce capace di persuaderlo a manifestarsi infine come la benevola figura, Shiva, capace di condurre il teurgo alla vetta della conoscenza, l’apice del monte analogo, dove solo il Supremo Dio domina e risiede.

Il carattere celeste di Rudra si evince anche nelle scritture vediche arcaiche, nel Rg Veda è il Dio del Cielo, le cui frecce cadono dal cielo, che discende sulla terra dal cielo, che dal cielo fa discendere le piogge. La sua connotazione perciò è Uranica, la presenza invisibile, “cielata”, che si nasconde nel cielo e discende visibile solo per le sue frecce, i fulmini e le tempeste, che ne segnalano l’approssimarsi. E’ il Padre primordiale, quello che abitava il Nulla prima della creazione ad opera del demiurgo inquieto Prajapati. E’ chiamato, tra i suoi mille nomi, con gli epiteti del cielo stellato, dai mille occhi, che veglia sulla creazione senza esserne afflitto, ogni parte del cielo corrisponde alle membra di Śiva-Kālarūpin, da cui l’intera volta celeste è pervasa. E’ il testimone della Creazione e il suo predecessore, il cosa e il chi prima di ogni altro, e il signore del tempo che sotto di lui si dispiega e del destino che le stelle imprimono con il loro moto regolare.

Il colore Rosso che lo definisce, soprattutto nel contesto rituale in cui si trova la litania delle sue evocazioni, lo situa a rappresentare l’elemento unificatore e primordiale rispetto a tutto il creato: Rudra è ipostasi di Agni, il Fuoco. Agni che è invocato dal Creatore stesso Prajapati affinché gli restituisca l’interezza, perduta nella creazione, e con essa lo Spirito, l’Atman, che nella creazione lo ha abbandonato. Rudra è quindi figura di Brahman, la Realtà Suprema, lo Spirito immortale che il creato non percepisce, ma lo yogi vedico, attraverso il sacrificio, ricerca incessantemente di recuperare: con il rito, con la preghiera e con l’ascesi.

Rudra è lo spirito invisibile che muove ed evolve, nascosto sotto gli occhi di tutti, il destino di tutte le creature, dalla prima all’ultima, l’alto come il basso. L’universalità con cui Rudra è evocato è una formula unica nella letteratura religiosa. Il Dio è personificato nel re come nel servo, nel condottiero come nel fante che marcia a piedi, nell’auriga che guida il carro, ma anche nel carro e nell’artigiano che ha costruito il carro. E’ dunque il condottiero, il soggetto, ma anche l’oggetto inanimato, il percorso e ogni mezzo, diretto e indiretto, applicato per conseguire la conoscenza, ed è colui che non ha mezzi e deve muoversi a piedi.
Egli è sfuggevole e rapido, imprendibile come un ladro che attende il passante nella notte senza luna, avvolto in un fitto turbante, appostato dietro una rupe delle strette strade impervie dell’Himalaya. Poiché è invisibile, ma i suoi fendenti e i suoi piani infallibili colpiscono senza scampo ogni vivente.

Perciò è come il Sole, veduto da tutti: dalle donne che trasportano l’acqua dal pozzo e dai mandriani che muovono le bestie, su tutti governa e a tutti è noto, di tutti regola il tempo e lo spazio dell’esperienza, perciò nel Sole da tutti è riconosciuto.
Dunque leggiamo questa lunga e dettagliata preghiera, e restiamo stupiti del mondo brulicante che si offre a noi. Perché davanti ai nostri occhi non troviamo un catalogo convenzionale di buone intenzioni e di contrizioni devozionali, ma una descrizione minuziosa, paradossale ed estatica di una realtà sconfinata e tangibile, che lentamente si presenta sotto i nostri occhi e ci investe, ci trasporta e ci integra in sé. Siamo alla Presenza del Dio, tra le sue possenti braccia che stringono nell’estasi.

Il Suono, il seme, la parola e il Mantra nella filosofia dello yoga.

Il fuoco ha donato al sacerdote la Parola Sacra, ha svelato il potere che si nasconde dentro la materia. E quel potere è l’ispirazione della parola stessa. Attorno al Fuoco Sacro di riuniscono i poeti, sacerdoti e sciamani. La prima parola è ascolto interno, ispirazione. Sruti, la rivelazione sacra dei Veda, è parola udita, che i poeti Rsi mettono in versi, cantano, intonano e contemplano. Il potere intrinseco del fuoco ha fatto scaturire l’invisibile, la Parola che è luce divina, che sorge spontanea dall’interno, cantata dal fuoco, dalla potenza interiore che in esso si riflette, si contempla. Così può sollevarsi dalla miseria della condizione affamata e sola, nel cosmo, e contemplare la natura, gli esseri visibili e invisibili che abitano il tutto, coglierli nella loro essenza. Con la poesia, la visione interiore, il consacrato si solleva, viaggia mondi sottili, vede le forze naturali allo stato puro, infine, riconosce che tutto quello che la sua visione ha dispiegato, come in una nuova creazione, parallela a quella naturale e luminosa di significato, liberatrice: l’inno, che da un solo punto è stato generato e verso quel punto ritorna, si riassorbe. La pratica dello yoga, come la metafisica del Vedanta, incominciano da questa contemplazione unificata, primordiale.

Quel primo e unico punto è uno stato immanifesto, in cui sono latenti fuoco e vibrazione, uniti in un abbraccio silenzioso, in cui non c’è uno e non c’è due. Questo è l’essere, prima di qualsiasi manifestazione o creazione. All’inizio era il Nulla, dicono i testi sacri. Questo è Parabrhaman, Essere puro, privo di attributi, di forma e di dualità. Semplicemente è, e nulla è al di fuori di lui.
Poiché esso esisteva, deteneva in sé, in quanto esistente, una energia, un potenziale, che nella parola Brahman è implicito: espandersi. Brahman è uno e immobile, solo e unico, prima della creazione, ma detiene in sé il potere di creare ogni cosa, di espandersi in infinito, Essendo l’unico e il solo, è già infinito, non potendoci essere altro a stabilire il suo limite: è potenziale espansione infinita. Questa potenza può espandersi, quindi vibra. Questa dynamis è inerente al Brahamn stesso, è il suo stato naturale. La vibrazione è per sua natura suono. Dunque Brahman “canta”, suona. E’ un suono ben preciso, unico, che sarà ascoltato vibrare in tutto: AUM. Nel momento in cui si coglie questa vibrazione si stabilisce un elemento di emissione. C’è un soggetto e c’è il suono che emette. Questa biunità divina, non potrà mai essere una vera e propria differenziazione. Il suono, la voce di un essere, non sono mai separati dall’essere stesso. Come la luce con il fuoco. L’emissione sonora è effettivamente emissione luminosa, perché implica l’attivarsi di una coscienza, dove coscienza è luce: la possibilità di distinguere un oggetto è la luce, poiché il suono può guidare, orientare, nominare, evocare, formare sentimenti, espressioni, forme primordiali di oggetti.

Afferma la Maitri upanishad: “Esistono due Brahman su cui meditare: Sabda Brahman (Suono) Asabda Brahman (senza suono). Il Brahman Senza suono è rivelato dal Sabda Brahman. Il Sabda è Om. Grazie all’Om il suono si spinge verso l’alto e si riassorbe nel non suono. Ecco l’immortalità, ecco l’unione suprema, ecco la beatitudine.”

All’interno di questa dinamica tra suono e senza suono, il tantrismo indiano andrà a identificare la divinità maschile con il Supremo, senza suono, a cui viene associato un intrinseco potere femminile -Shakti – del suono. La potenza intrinseca dell’essere, la Coscienza o Parola, diventa la Madre, la Dea, la Sapienza con la quale si realizza il Supremo. Questa potenza viene indicata, specie nella tradizione tantrica e dello yoga, come Shabda Brahman o Naad.

Nell’essere vivente, lo Shabda-Brahman ha la forma di Kundalini Shakti che è racchiusa nel corpo, nel Muladhara Cakra. In Kundalini si trova perciò il Parashabda, che è la potenza sonora divina, per sua natura ascendente, che va suscitata nel lavoro dello yoga.

Affermano le Upanishad dello yoga che non c’è mantra più alto del Naad, non c’è devozione o pratica più perfetta che la ricerca del Naad. La meditazione deve tendere a percepire il suono interiore, che in Muladara è racchiuso senza essere udito, così che risalendo si riveli attraverso l’ascesa di Kundalini.

“Il suono interno, è detto, assorbirà e annullerà tutti i suoni esterni e il suo ascolto si porterà a un livello sempre più sottile. Sarà dapprima come l’oceano, poi un tamburo, una cascata, un tamburello, un campanello, un flauto, un’arpa e poi un’ape. Si abbandonino pensieri e azioni e si mediti soltanto sul suono interiore, il Naad.
Tutte e azioni religiose trovano la loro tomba nel Naad del Pranava (OM), in cui si manifesta il Brahman, che è lo stesso Atman”. (Nadabindu Upanishad)

Kechari Vidya e dottrine segrete. Iniziazione, morte e immortalità nello yoga delle origini

“Lo yogi deve conoscere il grande sentiero che attraversa il cranio, nella regione dell’uvula, nel mezzo delle sopracciglia, dove è la Montagna dalle Tre cime.” (Kechari Vidya, Adi Nath) Dunque, secondo la prima definizione dello yoga, il luogo tra le sopracciglia è il punto da cui lo Yogi può bere il nettare dell’immortalità: amrita. Con una accurata preparazione, lo Yogi viene messo in grado di ruotare la lingua su se stessa, fino a risalire attraverso il palato molle all’uvula che racchiude il nettare. Praticando questo Mudra, con le diverse modalità in cui è esposto, lo yogi può permanere lungamente e tanto è protratto il tempo che riesce a mantenere la posizione, tanti più straordinari poteri e benefici gliene verranno. L’amrita è deposta in quattro Kala, che consistono nel quattro obiettivi della vita umana: ad est è il kala detto krta, a sud il Gupta, a ovest Shiva e a nord Paramashiva. Accedendo al kala orientale, lo yogi diviene maestro del Dharma, con quello meridionale diventa padrone delle ricchezze materiali, ad occidente diviene signore dei piacere sensuali, con quello settentrionale diviene il signore degli Dei (Shiva). Quando questo eccellente tra gli yogi beve l’amrta che è superiore ai quattro kala, all’apertura detta di Brahma, diviene Shiva: liberato in vita. Se pratica mensilmente per dodici anni, lo yogi, libero da malattie, onnisciente, onorato dai saggi, diventa come Shiva, senza età e immortale, in questo mondo.

Al solo bere il nettare superiore, in mese, lo Yogi diventa eguale a un dio, in due mesi padroneggia il significato di tutti i testi sacri, in tre mesi è uguale a Shiva. In quattro mesi ottiene l’onniscienza, in cinque diventa un grande iniziato e può acceder liberamente ai tre mondi, in sei mesi è liberato in vita. In sette mesi diventa associato ai grandi spiriti, demoni e serpenti. In otto mesi riesce a comunicare con gli Dei. In nove mesi ha il potere di diventare invisibile e infinitesimale. In dieci, di assumere qualsiasi forma, in undici mesi la conoscenza del passato, del presente e del futuro, e quindi, come un potente dio universale, è uguale a Shiva.

Si vede come tra questi poteri figurino potenzialità tipicamente yogiche, insieme ad altre tipicamente sciamaniche e quella diventerà invece l’obiettivo unico e supremo della filosofia, la liberazione in vita. Ma è prevalente la meta dello Yoga, l’identità con Shiva.

“Abbandonati i testi sacri, le azioni rituali, quali la ripetizione dei mantra e le oblazioni, le nozioni di bene e male, lo yogi pratichi lo yoga. Egli deve ritorcere la lingua verso l’alto e inserirla nella Montagna dalle Tre Cime. Sappia che la Montagna si trova nel cranio, posta sotto la fronte e sopra l’uvula. Lì si trova un lingam splendente, libero dal processo temporale, difficile da percepire, anche per gli immortali. La notte si dice si trovi in Ida, il giorno in Pingala. Sole e luna sono posti nel giorno e nella notte. Lo Yogi non deve adorare il Lingam di giorno né di notte, Egli adori il lingam incessantemente, là dove il giorno e la notte sono aboliti. Questa esistenza inoltre considera che è fatta di giorni e notti; il processo temporale ne costituisce la trama. Con la soppressione del processo temporale, si sconfigge la morte. “[Adi Nath, Kechari Vidya]

Con la lettura e il commento dei misteriosi testi yogici sull’immortalità, certamente più ampiamente allegorici di quanto la mentalità materialista riesca a figurare, avremo compiuto un percorso di profondo supporto, demistificazione e conoscenza per tutti quei ricercatori che desiderano ritornare alle Fonti della Conoscenza Sacra e immergervisi con l’immaginazione attiva, l’intuizione e l’esperienza diretta di sé.


Il rapporto centrale della vita è fra cielo e terra, ed è stabilito da una figura di mediatore ambiguo che appartiene all’una e all’altra sfera. Il rapporto ha modalità complicate che si esauriscono nel corso del sole attraverso le varie stazioni zodiacali, ed è patrimonio dello sciamano, di colui che ha imparato a discernere la musica occulta dell’universo e a riprodurla con la sua voce. Per virtù di ascesi egli diventa cassa di risonanza, svuotato, domina il proprio respiro, e, valendosi anche di strumenti, riproduce l’atto sonoro originario, il Verbo creatore che echeggia nel rombo, nel tuono, nel mareggiare, nell’urlo belluino. Il mondo fu creato dalla morte, che canta il canto della morte creatrice, il quale si solidifica in pietre e carni. Dalla quiete o morte originaria sorge il desiderio, la fame o brama come allo spezzarsi di un uovo la creatura: il Verbo, designato come tuono, stella canora, aurora risonante, canto luminoso. In Egitto è il sole cantante, o Thot che dà una risata settemplice; nei Veda era un inno di tre sillabe. Il suono del Verbo è il suo corpo, il senso del Verbo è la sua voce. Nella tradizione vedica si dice che il Verbo si è diffuso nel creato, cioè: ogni tono musicale corrisponde a una figura astrale, a un momento dell’anno, a un settore della natura, a una parte dell’uomo.
Elémire Zolla su Il significato della musica, di Schneider Marius

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi