versi 22-40
22. Andare senza sentiero, bruciare senza fuoco,
Saziare la propria sete con l’aria.
Gorakh Nath ha insegnato la conoscenza di sé.
Così che i suoi studenti possano sperimentarla.
23. Nella volta del cielo c’è un pozzo rovesciato.
In quello si trova il nettare.
Chi ha un guru può berlo tutto.
Chi è senza guru rimane assetato.
24. Il cielo non lo può nascondere,
Non può bruciarlo il fuoco, il vento non può spostarlo.
Il peso della terra non può schiacciarlo, l’acqua non può sommergerlo.
Ma se dico questo, chi mi capirà?
25. Al suo olfatto, tutto il mondo è fragrante.
Per il suo gusto, tutto è dolce.
Se dico la verità, il vero guru la accetterà,
E vedrò la forma [della verità].
26. Muori, Yogi, muori!
La morte è dolce
Muori di quella morte
Di cui Gorakh morì e vide [la verità]!
27. Non si dovrebbe parlare senza riflettere,
Non si dovrebbe esitare nel cammino, ma muovere i passi con attenzione.
Non si dovrebbe essere arroganti, ma sostenere la verità spontanea [sahaj]:
Così dice il grande Gorakh.
28. Quelli che sono pieni sono fermi;
Quelli che sono mezzi pieni sono debordanti.
Avadhut, quando un siddha incontra un siddha,
Parlando tra loro, entrambi ne hanno profitto.
29. Il Nath dice, ascolta oh avadhut:
Sii saldo, mantieni la mente sotto controllo.
Rinuncia alla lussuria, alla rabbia e all’egotismo,
Così [pellegrino] il mondo ti sarà straniero.
30. Oh Signore, se vado nella foresta, sono afflitto dalla fame,
Se resto in città sono preda dell’illusione,
Se mangio a sazietà, il seme mi pervade.
Come cuocere il corpo creato dalla goccia [bindu]?
31. Non rincorrere il cibo, non patire la fame;
Giorno e notte, esplora i segreti del fuoco del Brahman.
Non essere impaziente, non essere inoperoso:
Così ha detto Gorakh-dev.
32. Lo yogi parla con moderazione e mangia con moderazione.
Nella volta del suo cielo, il suono non causato risuona.
Ma se ricade nel corpo, è un disonore per il guru.
33. Oh avadhut, riduci il tuo cibo, scuotiti dal sonno,
E non ti ammalerai mai.
Trasforma il corpo fase dopo fase,
Come solo pochi yogi sanno fare!
34. Dovresti meditare secondo il tuo spirito,
E dovresti mangiare secondo la tua costituzione.
Respirare con consapevolezza, e restare nell’unmani,
Così gli yogi ottengono dell’essenza dell’essere.
35. Oh avadhut, nella dimora del sonno è il laccio della morte,
Nella casa del cibo abita il ladro.
Nella casa dell’amore, la vecchiaia ti divora.
Il potere sta nell’unire ciò che è in basso con ciò che è in alto.
36. Troppo cibo disturba i sensi.
Distrugge la saggezza e porta la mente a cercare l’amore.
Prolunga il sonno e la morte là attende.
E il cuore è preda della tristezza.
37. Gorakh solca il campo nel cuore di tutti.
Colui che nasce da quel campo è uno di noi.
Al cuore di tutti Gorakh insegna:
Un vaso non cotto non trattiene l’acqua.
38. Nel cuore di tutti Gorakh opera silenziosamente:
In alcuni è sveglio, in altri dorme.
Nel cuore di tutti è Gorakh, nel cuore di tutti è Mina [Matsyendra].
La conoscenza di Sé proviene dalla bocca del guru.
39. I sandali di legno sono scivolosi.
Le catene di ferro rovinano il corpo.
Vivere nudi, in silenzio, mangiando solo latte:
Lo yoga non viene realizzato in questo modo.
40. Il cuore di chi consuma solo latte abita una casa che non è sua.
Chi è nudo ha sempre bisogno di legna da ardere.
Chi mantiene il silenzio spera in un amico.
Senza un guru, la tunica ascetica non ha valore.
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Commento
§§§
Stile di vita e Verità
La maggior parte dei versi di questa porzione è dedicata alla descrizione dello stile di vita dello yogi, la base sicura da cui si potrà intraprendere il percorso verso i piani superiori dell’esperienza spirituale. Come le scuole filosofiche antiche, lo yoga di Gorakh è prima di tutto un pensiero che si deve tradurre in uno stile di vita, una prassi. Per la filosofia antica un pensiero che non corrispondesse alla dignità della persona chiamata a incarnarlo, che non ne facesse la personificazione della saggezza, il saggio, non avrebbe avuto alcun senso. Perciò, prima di entrare nella distinzione di esercizi peculiari di un modello esoterico e iniziatico, la dignità dello yogi, la sua saggezza e il suo equilibrio sono poste a fondamento. Lo yogi ha stabilito un equilibrio nella sua condotta ed è appagato della saggezza. Questo modello è il “filosofo” dell’antichità, specialmente simile al pensiero indiano nella tradizione stoica e poi neoplatonica.
Tutti coloro che si esercitano nella saggezza, hanno cura di condurre una vita immune da eccessi e polemiche. Evitano gli estremi e il fanatismo, e schivano relazioni con gli intriganti e i luoghi che essi frequentano, i tribunali, le pubbliche piazze, gli incontri prediletti dalla gente inquieta: la vita sovreccitata e rumorosa dell’uomo comune, il cibo che nutre e agita la mente del basso razionale. Quelli che sono “pieni” di saggezza sono fermi, quelli che sono “mezzi pieni”, la cui saggezza è incompiuta o scarsa, parlano e debordano rumorosamente; solo il dialogo tra menti ugualmente sagge è di qualche utilità per il filosofo [verso 28].
La vita contemplativa, prima ancora di definirsi con i canoni monastici e ascetici, che in occidente saranno descritti da Clemente Alessandrino, è senza meno una vita di contemplazione della natura, che deve condurre al Vero, secondo la prospettiva che fu dei platonici e degli stoici. Questo stato naturale è perseguito con l’osservazione delle potenze che nella natura si manifestano, la terra, il mare, l’aria, il cielo, le stelle, gli astri, che offrono il sentiero non tracciato affinché le anime si elevino ai piani sottili, per osservare le potenze che lì operano ordinando il mondo. [verso 22]
Il distacco dal mondo apre la strada alla contemplazione del Bene che governa la natura, e in questo consiste l’eccellenza del vivere, secondo lo stile del filosofo. Così ci si distoglie senza sforzo dalle passioni e dai piaceri, dai mali transitori del corpo, si diventa capaci del discernimento, indifferenti alle cose indifferenti. Immuni dalle affezioni volgari, i filosofi “saziano la propria sete con l’aria” [Verso 22], con l’amore per la saggezza. Filo-sophia, amore per la saggezza, bastava agli occhi degli antichi per esprimere questa esperienza pratica e trasformativa, come maniera di vivere, stare al mondo e coltivare la conoscenza. In India, il capostipite di questo atteggiamento concepì il vivere come Yoga e i visitatori greci, con cui gli yogi ebbero proficui contatti, riconobbero in questi saggi l’esempio del vivere filosofico.
Il cielo non lo può nascondere,
Non può bruciarlo il fuoco, il vento non può spostarlo.
Il peso della terra non può schiacciarlo, l’acqua non può sommergerlo.
Ma se dico questo, chi mi capirà?
[verso 24]
Se Gorakh avesse descritto la vita liberata con le parole canoniche delle scritture religiose, così come l’Atman è identificato tradizionalmente – indistruttibile, eterno, imperituro, immortale – chi avrebbe potuto trovarlo in pratica, chi lo avrebbe capito? Perciò la sua Parola, Bani, insegnerà come cercare questa esperienza, della conoscenza di sé, perché la ricerca della verità (imperitura, eterna, indistruttibile, ecc.) incomincia esattamente nel corpo vivente dello yogi. [Verso 22]
Così Shankara ammoniva a non farsi irretire dalle parole “fiorite dei Veda”, ma di comprendere come la verità non fosse descritta in quanto tale, ma codificata per essere svelata con la determinazione e il discernimento intellettuale. Le Scritture indicano un enigma, che lo yogi deve interpretare con la sua esperienza diretta, non serve perciò ripetere tale e quale la lettera sacra, senza aver compreso il suo contenuto. Realizzare è fare sì che ciò che era oscuro diventi auto-luminoso (questo è il termine che usano gli indiani), cioè una “ben rotonda verità” parmenidea, ben visibile e tangibile, praticata e vissuta.
Come la Verità, che deve essere sostenuta solo da sé stessa e dall’esperienza diretta, lo Yogi, come filosofo antico, cerca l’indipendenza, la libertà interiore, lo stato in cui l’io non dipenda che da se stesso. Ogni definizione letteraria, perciò, è solo strumentale, la verità deve essere sahaja: spontanea, naturale [verso 27]. Il discutere di filosofia non è la filosofia, come sottolineava Epitteto, in quanto l’architetto non dirà “ascoltatemi discutere dell’arte di costruire”, ma costruirà la casa. Così il filosofo deve accedere alla fonte primaria della conoscenza, pervenire a una chiarezza che si fonda sull’essere – non inteso e ipostatizzato come ente e sé stante – ma come condizione pura e dà sé espressa e in sé fondata, che abbia tratto provenire dal profondo della Natura, che è cosmo e presenza cosmica nel proprio corpo, immediatamente e chiaramente presente.
Ciò che è vero quindi non può essere oscuro, perché il Vero splende come il Sole, davanti agli occhi di tutti, e anche questa idea accomuna le scuole antiche d’oriente e d’occidente. Non significa che non vi sia alcun mistero: il mistero è implicito nell’immagine solare, che nessuno può guardare a occhio nudo. La sua potenza acceca. Perciò, poiché il Mistero non si può percepire con i sensi, poiché l’oscurità sommerge i sensi alla Sua vista, i versi dell’Isha Upanishad pregano il Sole di sollevare la sua “maschera d’oro” e svelare ciò che sta oltre il limite della percezione ordinaria. Il mondo che si trova oltre il Sole, è il mondo degli “immortali” coloro che non sono sottoposti al limite dei sensi e delle facoltà inferiori. Il cielo, dunque, non potrà più nascondere il Vero [verso 24]. Perciò si indaga quel cielo, come segue.
§§§
Il pozzo, il cratere, il nettare
Il “pozzo” di questa conoscenza è nel cielo interiore, che la geografia del corpo yogico situa nella calotta cranica, che è un vaso rovesciato, dicono le Upanishad, sul cui bordo seggono i sette veggenti, coloro che udirono i Veda. “Vi è un vaso la cui apertura è rivolta verso il basso e il fondo verso l’alto. In esso è posta ogni genere di conoscenza. Sul suo bordo siedono i sette saggi. L’organo della parola, che reca la conoscenza del Brahman, è l’ottavo.” (Brhadaranyaka Upanishad II, 2:3) Il vaso è la mente, i sette saggi sono i prana, l’ottavo, la parola, è il logos, sintesi coerente e unitaria della conoscenza che i sette veggenti hanno stabilito con le loro percezioni sulla soglia.
Così invece è il Cratere di Ermete Trismegisto:
Tat : Perché dunque, o padre, Iddio non ha distribuito l’intelligenza a tutti?
Erm : Egli ha voluto, figlio mio, metterla nel mezzo delle anime come premio da conquistarsi .
Tat : E dove l’ha messa?
Erm : Ne ha riempito un grande cratere e l’ha fatto portare da un banditore, ordinandogli di gridare ai cuori degli uomini : «Battezzatevi , se lo potete, nel cratere, o voi che credete di tornare a colui che l’ha mandato, voi che sapete il fine della vostra vita ! » E quelli che compresero questo appello e furono battezzati nell’Intelligenza, quelli possederono la Gnosi e diventarono gl’iniziati dell’Intelligenza, gli uomini perfetti , ed ebbero l’Intelligenza mentre gli altri ignorano perché e da chi siano stati creati.
Le loro sensazioni rassomigliano a quelle degli animali irragionevoli. Formati unicamente di passioni e di desideri , essi non ammirano ciò che è degno d’esser contemplato: essi si danno ai piaceri ed agli appetiti del corpo, e credono che questo sia il fine dell’uomo.
Ma quelli che hanno ricevuto i doni di Dio, quelli, o Tat, a considerare le loro opere, sono immortali e non più mortali . Essi abbracciano con l’intelligenza ciò che esiste sulla terra e nel cielo e ciò che può esserci sopra ad esso. All’altezza dove son pervenuti, essi contemplano il bene, e questo spettacolo fa loro considerare come una disgrazia il soggiorno di quaggiù; e, disprezzando tutte le cose corporee, essi aspirano verso l’Uno e il Solo.
Questa è, o Tat, la scienza dell’Intelligenza: contemplare le cose divine e comprendere Iddio poiché divino è il cratere.
Chi non ha avuto accesso al “Cratere” possiede dunque, per Ermete, l’intelligenza che condivide con gli animali. Mentre la Gnosi, che in questo Pozzo è disponibile, è la vera intelligenza. Il disprezzo del “corpo” che segue a questa descrizione, nel testo, rappresenta il tipo di conoscenza che l’iniziato deve abbandonare, quella che informa invece le coscienze che non hanno conosciuto la possibilità di attingere al Pozzo.
Nel sistema di Gorakhnath, il pozzo o cratere, è posto nel Cielo che sovrasta il pensiero e i suoi simboli e i suoi codici. Il cielo interiore è il luogo che li contiene, analogo al grande etere che abbraccia tutto lo spazio dove le cose hanno luogo e origine, ancora allo stato seminale. Tutti le cose abitano lo spazio e ne sono abitate, occupandolo: l’etere, o il vuoto, è il primo e l’ultimo degli elementi del cosmo. I buddhisti diranno che gli oggetti sono essenziati di vuoto. Questo è lo spazio interiore che i Nath chiamano Unmani, l’oltre-mente.
Il Nettare contenuto nel “pozzo”, ritorna con varie funzioni nella simbologia dello yoga: l’immortalità, la beatitudine, e le varie allegorie dell’estasi. Discende da una riserva virtuale che corrisponde al fluire non ostruito della coscienza, come la linfa scorre nelle vene degli alberi, dei corpi, della sapienza vivificata dall’esperienza. Questa è la Luna mistica, dove il seme della vita è contenuto come Nettare immortale. Il vaso della Luna è penetrato infine dal Serpente di Kundalini, che risvegliata, ha completato il suo corso rapido e fulmineo, fino a rompere d’impeto quel vaso: la beatitudine discende nelle vene dello Yogi realizzato, come nettare che fluisce in tutto il suo corpo. Il cambiamento della qualità del fluido vitale di cui il corpo dispone, cambierà radicalmente la qualità dell’esperienza di vita e le contingenze stesse, che dal quel “fluire” discendono come circostanze e eventualità.
Gli yogi individuano il luogo nel Brahmarandhra, che per la sua peculiarità è detto Jalandhara-Pitha, il luogo (pitha) della rivelazione del Supremo Signore che tiene la rete dei fenomeni cosmici (Jalandhara), il Supremo da cui questa rete dei flussi (jala) ha origine, e che questa rete sostiene, governa e armonizza (dhara). Jalandhara è il signore “che detiene la rete del mondo” come un sistema fluviale, è colui che la ricongiunge alla sintesi. Jala è l’acqua che scorre ovunque, che informa tutto il mondo vivente, essa è la stessa che circola in tutti i corpi, e tra le rocce, come nei fenomeni atmosferici, nel seme, nell’olio, nei succhi, nelle energie vitali. E’, in una parola, la coscienza vivente universale. [verso 23]
Il profumo della Conoscenza pura è fragrante, perché è l’odore che spinge tutti gli esseri al desiderio, è il profumo che invita, che risveglia la natura, ed è dolce il suo sapore, perché è il nettare che gli esseri secernono dalla beatitudine, la completezza, il fluire senza ostacoli, trasportati da una corrente gentile e necessaria, naturale, fresca e vivificante. Questo è il sapore che il filosofo sente nell’esercizio della sua “ascesi”, la conoscenza è dolce, fluisce spontanea, scorre veloce e vivificante, pura… Questa felicità e appagamento dovrebbero essere dello yogi filosofo, l’amore appagato per la conoscenza suprema. [Verso 25]
Se il discepolo troverò questa fonte per le sue parole, il Guru le accoglierà con gioia, e l’invisibile avrà finalmente trovato la sua forma. L’invisibile “deve essere visto”, diceva Gorakh nei primi versi, e le parole ispirate dello yogi sono la visione che il guru riconosce vera e autentica, proveniente dal Vero, corrispondente a verità. La Verità è la forma dell’Essere. [Verso 25]
§§§
La Morte.
Le parole che seguono sono le più celebri del poema, senza dubbio le più ripetute e meditate. [Verso 26]
Muori, Yogi, muori!
La morte è dolce
Muori di quella morte
Di cui Gorakh morì e vide [la verità]!
Perché questo processo abbia inizio, l’uomo comune deve morire. Non muore il suo corpo, nemmeno la sua vera individualità, che invece ne esce rinata, libera e ringiovanita, sciolta dalle vecchie vesti dell’identità che decade. Sono molti i modi in cui questo passaggio è stato espresso, ma non serve rappresentarlo come un simbolo, perché non è il gesto che conta, ma la sua funzione. E’ una rapida e significativa fase di distruzione, radicale e irreversibile, dell’idea convenzionale e condivisa dell’essere umano sociale, è uno scarto radicale, irreversibile come è la morte.
Questa “morte” risulta impraticabile alla maggior parte delle persone, anche dotate di “buona volontà”. La via della conoscenza iniziatica è per coloro che sentono quell’invisibile “morte” necessaria, e la accettano.
Si accetta così il Sabad [verso 14], la via per l’invisibile, l’ignoto a cui tutti gli altri accedono con la morte fisica. Si pronuncia l’assenso che l’animale dava silenziosamente alla sua esecuzione sacrificale. “Si faccia che la vittima acconsenta”, ordinava uno dei sacerdoti del rito vedico, e l’animale veniva sacrificato. “Om” era la sillaba che suonava l’assenso al sacrificio. Om è l’assenso.
Lo yogi parla con moderazione e mangia con moderazione.
Nella volta del suo cielo, il suono non causato risuona.
Ma se ricade nel corpo, è un disonore per il guru. [Verso 32].
Cantiamo la Sillaba agli Dei davanti agli altari e a un invisibile Atman durante la meditazione, discipliniamo apparentemente il corpo e l’espressione, nondimeno il nostro cuore non è saldo. Ricade il disonore sulla disciplina che pratichiamo e ricade il disonore sugli Dei che diciamo di adorare se il nostro assenso non è sincero, se in cuor nostro desideriamo ritornare nel corpo mortale. Così cadono le speranze lasciate aperte dai santi e dai maestri, e di tutto questo lascito si fa merce, feticcio e commercio, si fa inefficacia, marchiandolo con la nostra ipocrisia.
La grazia è sacrificio. La grazia naturale che i viaggiatori osservano in India è il profumo del sacrificio. La Sillaba detta con consapevolezza del suo peso, anche dalla gente comune, perché Om è la materia sonora dell’universo stesso, senza preclusioni: tutto vibra dell’assenso corale. Esistere è offrire questo assenso. L’uomo, dicono le Upanishad è sacrificio. Una vita non sacrificata, dicono le persone per bene in India, è una vita fallita, non compiuta, disonorevole. Una vita sacrificata è la sola vita compiuta, “realizzata”.
Perciò è con grazia che si apprestano a sacrificarsi per gli altri, rendere felici gli ospiti, la moglie, il marito, gli dei, i genitori, i suoceri, il guru. Gentilezza e rispetto, autocontrollo e non violenza, servizio e azione disinteressata, amore e fedeltà, ospitalità e tolleranza, parole gentili e pensieri buoni, generosità e dono, pietas per i defunti e gli altri invisibili che vegliano la nostra vita fragile: con queste virtù è ri-costruita la natura umana. Questo “esubero di sé”, oltre le ristrettezze che sono imposte dalla scarsità materiale e del beneficio immediato, è l’opera al nero, la purificazione del corpo mortale, preliminare.
La vita è servizio, dato in un ordine codificato e non negoziato, perché il sacrificio deve scorrere fluido, senza pensieri, senza giudizio e senza rimorso. Così come olio deve scorrere la meditazione, senza interruzioni, come l’olio versato nel sacrificio. Il sacrificio raccoglie il nostro “olio”: la fatica delle giunture che lavorano, il seme che fluisce nella riproduzione, il sudore della propria fronte, la meditazione senza sosta. Unti di questo olio, come animali sacrificali, si assiste al proprio sacrificio di passaggio in passaggio, dal concepimento alla pira funebre. Una vita già consapevole della sua funzione oblativa è il terreno sacrificale ideale, in cui si può maturare il desiderio di salire a un livello più grande e universale di realizzazione.
Non va alla Liberazione chi usa per sé quel prezioso nettare, olio o seme, perché credendo di consumarlo per il proprio piacere, lo getta alla dissipazione della morte “ripetuta”, quella morte che gli antichi attribuivano ai non iniziati. Furono gli Dei a indicare la via, i primi a diventare immortali. Perciò il saggio seguirà la via degli Dei, mentre l’uomo comune seguirà, devotamente, la via dei Padri. Queste sono le due vie del Dharma, ma il sacrificio risuona in entrambe come l’unica via, senza il quale non c’è “nulla, né in questo mondo né nell’altro”.
“Ciò che fecero gli dei è quanto va fatto”, si dice nei Brahmana. Poiché essi, per primi, accettarono la via, accettarono il Sabad, dice Gorakh.
“Gli Dei sono gloria e bellezza, e divennero immortali mediante il sacrificio”, la storia è raccontata nel Satapatha Brahmana. Gli dei in origine erano mortali. Quando avevano già vinto la guerra contro gli Asura – rigettando completamente il male da se stessi – gli Dei ebbero paura della Morte; videro gli inni, e penetrarono in essi; se ne servirono per coprirsi, ne fecero i loro corpi, e come gli inni divennero immortali, perché fatti della Sillaba indistruttibile. Questo passaggio del Satapatha Brahmana è ripreso similmente in Chandogya Upanishad. Gli Dei, inseguiti dalla Morte, presero rifugio nella sillaba Om, perciò, “Colui il quale, conoscendo questa sillaba, così la invoca, costui entra in questa stessa sillaba che è il suono immortale e senza paura. Essendo entrato in quello, al pari degli Dei immortali, egli diviene immortale.” (Ch. Up. I:4, 5)
All’inizio, gli Dei e gli Asura erano “branchi”, come animali, privi di individualità. Siccome erano privi di individualità, erano mortali, perché “chi non ha una individualità è mortale” [Satapatha Brahmana]. Che cosa significa essere mortali e quale individualità può aspirare all’immortalità? Yama, come Ade, il signore dell’oltretomba, è “il signore delle moltitudini”. Nelle schiere dell’oltretomba, nell’Ade greco, “il regno dei molti”, abitano ombre che sono solo eidola, immagini della persona che erano state, rimpianti, fantasmi: illusioni di essere. L’oltretomba è il luogo in cui abitano le illusioni perdute, le identità che la vita inconsapevole ha condannato a morte. Questa morte è detta alternativamente definitiva, o ripetuta, che vuol dire: morire senza conoscere il Vero è morire due volte, definitivamente. Samsara è un termine e un concetto successivo. Sebbene i due termini non compaiano mai insieme, appartenendo a epoche diverse, il loro utilizzo parallelo, per esporre lo stesso concetto, sembra suggerire una coincidenza concettuale tra il mondo dei vivi inconsapevoli e quello dei morti…
Quindi si deve prestare attenzione allo slittamento tra l’ego mortale, che è mera unità di un numero-moltitudine e, invece, l’individualità dell’Atman che ci dispone tra gli immortali. E’ nella personalità vivente che si deve fare esperienza dell’unità di questo (Jivan) con Quello (Brahman), e la loro identità è Atman. Questa individualità superiore, o meglio, questa esperienza della vera natura del Sé, mancava anche agli Dei, all’inizio. L’Atman, che si identifica proprio a partire dalla teurgia dei Brahmana, diventa il vero processo dell’individuazione, la vera individualità, immortale, stabile, non soggetta alle distruzioni in cui precipita l’illusione. Identificarsi con l’immortale invisibile Atman, è ascendere al Brahman.
Gli Dei “videro allora l’immortalità che era l’installazione del rituale del fuoco… Lo installarono in sé stessi, nel loro intimo, e quando l’ebbero installato in sé stessi, nel loro intimo, divennero immortali, divennero invincibili e trionfarono sui loro rivali.” E’ la prima occorrenza del Sacrificio Supremo, l’Atmayajna, nella storia del mondo. Si faccia dunque quello che fecero gli Dei, dicendo: “quello che hanno fatto gli Dei occorre che si faccia”. [Satapatha Brahmana].
Tradizionalmente, ai Re e agli Yogi è concesso questo privilegio necessario per accedere al proprio status sociale, che li situa, come figure e come esperienza, a rappresentare il Supremo in terra.
Perciò Gorakh dice [versi 14-15], sintetizzando il pensiero del Brahmana, la via dello Yoga è la via degli Dei, ad essa accedono gli yogi e i re, trascendendo la dualità:
Accetta questo percorso, oh erudito sapiente!
Così come è accettato da Brahma, Vishnu e Mahadeva.
Accettando il Sabad, la dualità cessa.
Bharthari fu nominato re per determinazione, Gopicand per esperienza.
Con la determinazione, i re trascendono gli opposti.
Con l’esperienza, gli yogi [raggiungono] la beatitudine suprema.
Dunque [Verso 26]:
Muori, Yogi, muori!
La morte è dolce
Muori di quella morte
Di cui Gorakh morì e vide [la verità]!
Amara è la morte della gente irrealizzata, si comprende bene. Questa morte invece è dolce, perché è l’ingresso nella sfera dell’immortalità, dei liberi, di coloro che, vedendo il vero in sé stessi, non patiranno – in questa vita – la morte “ripetuta”.
§§§
Il cibo e il sonno
Le prime istruzioni alla disciplina
Scuotiti dal sonno della morte, Avadhuta [verso 33]. Sono come coloro che dormono quelli che camminano nel mondo, essi vanno a precipizio verso la morte [verso 35]. Riduci l’attenzione a tutto quello che dal mondo proviene, quel cibo non sta nutrendo il corpo, ma eccitando il seme, che invece tendere al cielo, riempie tutti i vasi del corpo, inducendo agitazione, dispersione e tensione verso altri desideri. [verso 36]
Solo nel silenzio aperto e vasto dell’Unmani si osserva Gorakh lavorare il campo nel cuore dove il suo seme è stato deposto dall’iniziazione. Tutta la genealogia dei Guru abita nel cuore dell’iniziato, perciò è nominato anche Matsyendra, ciascuno dei grandi Guru opera concedendo le sue prerogative, che lo yogi deve lasciar maturare al suo interno, finché si sveleranno a lui spontaneamente. Al di là delle tecniche, che siano intese come esercizio fisico o allegorico, la spontaneità, dell’intuire e realizzare da Sé ciò che nel cuore è stato piantato, resta un punto che si situa al di là di ogni professione di saggezza o di perfezionamento.
Da quel seme coltivato dal lavoro invisibile del Guru, deve nascere lo yogi. Solo quella personalità nuova, che nasce dal seme dell’iniziazione sarà legittimamente chiamato un Nath. [verso 37]
Lo spazio della mente “vuota” permette di aprire la dimensione del tempo della crescita interiore. Per cui, non essere impaziente, ma non lasciare il tuo campo incustodito. Se tu “dormi”, come la gente comune “dorme” agendo nel mondo, Gorakh dorme.
Il raccolto verrà a suo tempo, e il solo modo di permettere al Guru invisibile di lavorare il campo è restare nella meditazione più profonda, nella non-mente, ogni istante. Senza aspettative, senza arroganza, senza affrettare i tempi, ma con costante attenzione al piano invisibile e fecondo del cuore.
Il vaso “non cotto” è il corpo non trasformato, dove il desiderio e le emozioni, che nel pensiero tradizionale sono il liquido vitale, (per i greci, thymos), pervadono gli organi costituendo una perdita di energie e l’affaticamento. Il seme pervade il corpo e colora la psiché, il soffio dell’anima. La malinconia, la tristezza, il temperamento sanguigno e violento, e infine, la morte stessa erano considerate effetto di questa pervasione incontrollata del liquido, suscitato dalle emozioni.
Il vaso che non è stato “cotto” dal tapasya, dal controllo di sé, è perciò soggetto a questa dispersione, non trattiene l’acqua, così come la mente non trattiene la parola e l’anima, infine, rischia di non trattenere il suo prezioso soffio.
Gli organi che compongono il corpo devono perciò essere ricondotti alla loro esperienza sottile. Se la morte iniziatica dello yogi è sincera, la sua natura attuale è quella di un seme, i cui organi non sono formati, in attesa che la conoscenza gliene conferisca di nuovi. Come un seme, lo Yogi, in alcune circostanze iniziatiche tradizionali, veniva sepolto vivo in una piccola grotta per un periodo di tempo che arrivava fino ai quaranta giorni. In questi spazio simile all’etere, tomba e utero, vuoto, buio e carico di attesa di salvezza, di rinascita, il suoi sensi dovevano cambiare direzione e consistenza. I ricordi del passato dovevano apparire come le ombre dei morti, eidola esangui, meste, che si sforzava di scacciare dalla mente.
Così facevano e ancora oggi fanno i Nath yogi iniziati allo status di Darshani, così a Velia facevano i guaritori di Asclepio, da cui proveniva Parmanide, il padre della filosofia occidentale. A questo scopo si possono collegare gli ipogei che sono sparsi nella nostra penisola e in altre aree dell’Europa antica, come si richiamano le sepolture nelle cripte delle chiede cristiane primitive. L’attesa della rinascita in un corpo nuovo, divino o divinizzato, immortale o salvato, sotto la protezione e la cura del Maestro supremo.
La tomba dello yogi, però, è il suo stesso corpo, secondo un paradigma che è di tutta la cultura gnostica. Nel corpo lo yogi ritira i soffi, che guidano i sensi, che mettono in circolo i fluidi vitali.
La chiusura delle porte è l’esercizio che lo yogi deve praticare, non solo come postura fisica, ma come articolazione del sentire e percepire, che nell’esercizio fisico trova il suo schema di riferimento, non la sua conclusione.
Sii saldo, mantieni la mente sotto controllo.
Rinuncia alla lussuria, alla rabbia e all’egotismo,
Così [pellegrino] il mondo ti sarà straniero. [verso 29]
Lo gnosticismo mandeo ha descritto con la lucidità della visione il sentimento della Vita Straniera, o dello Straniero, attributo costante della “vita” che nella sua essenza risulta estranea a questo mondo e alle sue relazioni. Lo gnostico, come lo yogi, che risvegliano la propria natura profonda, provano un radicale sentimento di estraneità dal mondo ordinario. L’esercizio che impone la “sepoltura” dei sensi dentro un corpo sigillato dall’esercizio, esclude di mantenere quelle caratteristiche di comportamento e socialità che sono invece dell’ “uomo di mondo”. Il Gorakh Bani è un testo radicale, in questo senso, che non si riguarda di mantenere una mediazione con la vita comune. Così come i testi gnostici, la familiarità con il mondo porterebbe a dimenticare la propria (nuova) origine, la propria nascita spirituale, perdendola miseramente. La vita dello yogi, come quella dello gnostico, appartiene a un’origine diversa, superiore a quella materiale e del consesso della specie. Ad esempio, l’inizio tipico degli scritti mandei suona con questo tono:
“Nel nome della grande, originaria, Vita straniera proveniente dai mondi della luce, il sublime che sta al di sopra di tutte le opere”. Un attacco potente, che stabilisce la nuova identità dove tutte le identità convenzionali cessano: al di là della nascita di classe, famiglia, etnia, nazione, ecc. E’ la nascita spirituale, estranea a qualsiasi pre-condizione terrena, lo Straniero. Sebbene ai giorni nostri sette neo-gnostiche utilizzino questa idea per veicolare balorde teorie extraterrestri e fantasiose, la vita di cui si sta parlando, è quella che proviene dal seme spirituale, quindi dall’iniziazione. Il mondo per lo Straniero è estraneo. La reminiscenza, il ricordo spontaneo dell’origine, lo guida alla ricerca di sé, la reminiscenza è il contrario dell’apprendimento, è lo svelarsi indipendente da altre cause esterne di una proprietà di conoscenze, abilità (anche soprannaturali) e linguaggio nuove, e sfocia nel riconoscimento naturale.
Propongo questi elementi gnostici occidentali, in relazione alla sadhana, perché spiegano il sentimento e la direzione che la psicologia del cammino, mano a mano, deve affrontare e risolvere.
Questa condizione, del dio sconosciuto che attraversa il mondo, e che lo sottrae al mondo, e lo fa diventare lo straniero per eccellenza, cioè sottratto a ogni altra familiarità, è l’Ultraterreno o l’Aldilà stesso. Ecco come la Morte mistica si appropria della vita dell’iniziato. La nascita spirituale si situa al di là del destino segnato per tutti dagli astri e dalle potenze che determinano le tendenze innate e incontrollabili, la sfera karmica, che gli gnostici chiamavano Heimarmene .
«L’universo, il dominio degli Arconti, è come una vasta prigione la cui cavità più interna è la terra, lo scenario della vita dell’uomo. Intorno e al di sopra di esso le sfere cosmiche sono disposte in orbite concentriche che lo racchiudono. Più spesso vi sono le sette sfere dei pianeti circondati dall’ottava, quella delle stelle fisse. […] Il significato religioso di questa architettura cosmica sta nell’idea che tutto quello che si frappone tra qui e l’aldilà serve a separare l’uomo da Dio, non soltanto per la distanza spaziale ma per le forze attive demoniache. Perciò la vastità e la molteplicità del sistema cosmico esprime il grado di separazione dell’uomo da Dio.
Le sfere sono i seggi degli Arconti, specialmente dei «Sette», ossia degli dèi planetari presi a prestito dal pantheon babilonese. […]
Gli Arconti governano collettivamente sul mondo, e ciascuno individualmente nella sua sfera è un guardiano della prigione cosmica. Il loro tirannico governo del mondo è chiamato “heimarméne”, Fato universale, concetto preso dall’astrologia ma colorito ora di spirito gnostico anticosmico. Nel suo aspetto fisico questo governo è la legge di natura; nel suo aspetto psichico, che include per esempio l’istituzione e l’approvazione della Legge mosaica, mira all’asservimento dell’uomo. Come guardiano della propria sfera, ciascun Arconte sbarra il passaggio alle anime che cercano di ascendere dopo la morte, allo scopo di impedirne la fuga dal mondo e il ritorno a Dio. Gli Arconti sono anche i creatori del mondo, tranne quando questa funzione è riservata al loro capo, il quale allora prende il nome di “demiurgo” (l’artefice del mondo nel “Timeo” di Platone) ed è spesso dipinto coi lineamenti alterati del Dio dell’Antico Testamento.» (Hans Jonas – LO GNOSTICISMO)
Non solo il mondo delle relazioni umane, ma lo stesso destino individuale, come persona e personalità, deve esserne trasformato in un elemento sempre-venturo, di cui perciò non è dato nessun elemento precedente: dimenticato chi si era prima, il Sè deve essere auto-rivelato, pura spinta “cieca” alla liberazione, che autonomamente trova la sua via.
Perciò lo yogi chiude le porte e i cancelli del corpo, come vedremo negli esercizi successivi, si seppellisce nel proprio cielo interiore. Alza delle barriere salde al fluire del suo seme e del suo pensiero. Inverte la direzione del soffio, richiude la gola per ritornare al suono primordiale. Questi esercizi sono spiegati nelle strofe successive. Quello che conta dire qui è che la Morte iniziatica e la sepoltura nel corpo, e non l’acquisizione di saperi e tecniche, tanto meno di nozioni, diventa, insieme alla Parola del Guru, la leva per compiere il passaggio dalla vita ordinaria alla realtà piena della vita spirituale, fatta di soffio, spirito. Non servono perciò voti come l’astensione dai cibi solidi, conclude questa sezione, né indossare complicate vesti ascetiche, catene e sandali pericolosi. L’attenzione per il corpo è quella di mantenerlo integro e in uno stato equilibrato. L’attenzione interiore, invece, resta nell’unmani, da dove si osserva il Guru compiere la sua opera nel cuore del discepolo.
Om Shiv Goraksh
Adesh Adesh
Udai Nath, 29.11.2020